Da Piccola Ero convinta che mia madre fosse onnipotente
e infrangibile. Ai miei occhi era un granitico concentrato di certezze. Aveva
risposte a ogni domanda e cerotti per ogni ferita. Sapeva parlare con gli estranei
guardandoli negli occhi, camminare al buio, trovare la strada. Era forte e non
aveva paura di niente. Era tutto quello che non ero io, tutto ciò di cui avevo
bisogno. Tuttavia, mi accorsi piuttosto presto che, come tutti gli eroi, aveva
un tallone d’Achille: non tollerava la mia tristezza, al cui cospetto andava a
pezzi. Con la lucida inconsapevolezza dei bambini, avevo capito che i suoi
superpoteri avevano come primo e unico scopo la mia felicità. Essere la prima
della classe, avere tanti amici, perseguire pervicacemente gli obiettivi e
raggiungerli, non affacciarsi mai sul pozzo nero della malinconia, rispondere
senza esitazione: “Benissimo”. Questi erano, agli occhi materni, segnali
inconfutabili del mio benessere. Nella logica sbilenca e perversa di allora, mi
assunsi il grato compito di sorridere alla vita. Scoprii, attraverso la
pratica, che i sorrisi tendono a essere contagiosi e che l’ostinazione nel
fingersi felici può rendere tali. Eppure lo sconforto è un seme necessario che
germoglia dentro di noi, senza curarsi dell’allegria garrula e sgargiante di
cui ci ammantiamo. Se non gli concediamo il giust o spazio, se lo reprimiamo,
lui continuerà a crescere nell’ombra, e prima o poi finirà per soffocarci.
Questo forse mi creai un amico immaginario, tutto nero, e lo nascosi dietro il
frigorifero. Ogni tanto gli chiedevo, di nascosto: “Piangiamo un po', Momo?”.
Per questo mio papà inventò per me una canzone straziante dal titolo Povera
piccolina, che raccontava la storia di una creatura sfortunatissima e derelitta
su cui finalmente potevo piangere senza ritegno. L’ostentazione della felicità diventa,
a lungo andare, una cifra che di certo ingentilisce la vita, ma ci rende
refrattari al dolore e incapaci di maneggiarlo. L’altro giorno sono passata
vicino a un parco dove incontravo spesso mio padre la domenica. Portavo lì i
miei figli piccoli, lui mi raggiungeva, insieme li guardavamo giocare e
commentavamo il loro crescere e il nostro procedere. Ricordo che arrivavo
sempre prima io e, seduta sulla nostra panchina, sbirciavo oltre la siepe da
cui sarebbe sbucato, con il suo incedere lieve, lo sguardo curioso, un mezzo
sorriso, i mocassini di cuoi. Sono sei anni che non metto piede in quel parco.
Eppure mi piaceva, ci piaceva. Sono sei anni che non metto più piede in quel
parco. Eppure mi piaceva. Sono sei anni che a Pasqua non preparo più il casatiello,
una torta rustica che gli ricordava l’infanzia napoletana. Sei anni che non
entro nella sua pasticceria preferita. Sei anni che infarcisco di stupidi
impegni la data del suo compleanno perché quel giorno passi il più in fretta
possibile. Sono sei anno che, ogni volta che mi sveglio, mi manca l’aria, come
è mancata a lui quel pomeriggio di maggio. In sei anni non ho mai indugiato nel
dolore. E pur di non aprirgli la porta spontaneamente, ho sempre aspettato che
la sfondasse. Perché? Per poter continuare a sorridere e a rispondere:
“Benissimo, grazie”. Eppure oggi ho deciso che devo andare a sedermi sulla
panchina di quel parco, proprio davanti alla siepe, perché la piantina che mi
cresce dentro, insieme si sorrisi, ai pensieri e ai languori, ha bisogno di
aria. E anche io. Se vogliamo che sia sopportabile, il dolore dobbiamo farcelo
amico. Bisogna fagli spazio sul nostro divano, guardarlo negli occhi,
ascoltarlo parlare, conoscerlo, toccarlo. Senza crogiolarci nella sofferenza,
ma imparando a farci attraversare da essa. Si mischierà ai nostri sorrisi, ogni
tanto ti offuscherà ma ci renderà limpidi e autentici.
Claudia
de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 12 maggio 2018 -
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