I nove mesi che passai a Roma dal settembre del ’43 al giugno
del ’44 furono un periodo di tensione ma anche di spensieratezza. La città era
occupata dai tedeschi e dai loro compari fascisti che erano tornati a galla
dopo la formazione della Repubblica di Salò. Erano sempre controfigure e
proprio per questo striscianti e vili davanti ai loro padroni nazisti, che
aiutavano nelle imprese più turpi, nelle delazioni, nelle camere di tortura.
I giovani della mia età avrebbero dovuto presentasi alla leva
militare (avrei compiuto vent’anni nell’aprile), così come mio padre, sbandato
dopo l’8 settembre, avrebbe dovuto riprendere il suo posto di capitano degli
alpini in servizio territoriale.
Naturalmente non ci presentammo, incorrendo nella sanzione
prevista da un decreto firmato dal maresciallo Graziani che stabiliva la
condanna a morte con esecuzione immediata per chi non ottemperava ai suoi
doveri militari verso lo Stato, che in quel momento, nella Roma occupata, era
la Repubblica fascista di Salò.
Giovani renitenti e militari sbandati erano una massa
notevole di persone, ma in condizioni analoghe e anzi molto peggiori si
trovavano i pochi ebrei scampati alla retata dell’ottobre nel Ghetto e in altri
luoghi. Gli ebrei, se catturati, venivano inviati nei tragici campi di
concentramento tedeschi.
A Roma però c’era anche il Vaticano, una potenza religiosa di
grandissima rilevanza specie in Europa e nella stessa Germania, ma anche un
territorio, sia pure minuscolo, indipendente rispetto allo Stato italiano.
I tedeschi non violarono quel territorio. Dal punto di vista
militare, farlo sarebbe stato per loro facilissimo, eppure se ne astennero. Le
ragioni furono molte e non è certo questa la sede per esaminarle
approfonditamente. Una di queste, sostenuta con vivace polemica anticattolica,
imputa al papa Pio XII una colpevole tolleranza nei confronti del nazismo, in
contrasto con quello che era il suo atteggiamento negli anni in cui aveva
ricoperto la carica di nunzio apostolico a Berlino. Quella tolleranza aveva
comunque suggerito al cardinale Pacelli di non denunciare le leggi razziali già
in vigore in Germania prima della guerra e poi – diventato papa – di mantenere
il silenzio sull’orribile genocidio perpetrato nei campi di sterminio.
Le risposte da parte del Vaticano a queste terribili accuse
sono state di natura politica: se Pacelli – si è detto – avesse apertamente
preso posizione contro Hitler, avrebbe inevitabilmente condannato i cattolici
tedeschi a subire le stesse stragi perpetrate contro gli ebrei, senza ottenere
altro risultato che quello di estendere ancora di più le dimensioni di quella
carneficina.
Il dibattito è aperto ormai da molti anni ed è lungi
dall’essere storicamente concluso. Ma
per quello che riguarda la mia biografia posso testimoniare che il Vaticano, le
basiliche e altre istituzioni religiose che godevano della condizione di
extraterritorialità in base al
Concordato con lo Stato italiano, furono in quei mesi rifugio di migliaia di
giovani, di ebrei e di dirigenti del fronte antifascista che in quei luoghi
furono ospitati, nascosti e, in una parola, salvati dalla persecuzione e dalla
morte.
Io decisi di nascondermi nel febbraio 1944, dopo essere
sfuggito per puro caso ad alcune retate avvenute nelle strade della città e
dopo che, con il bando Graziani sopracitato, cominciarono perquisizioni di
interi edifici sulla base di delazioni.
(…)
Eugenio Scalfari – Racconto Autobiografico – Einaudi –
l’Espresso –la Repubblica
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