Un migrante dell’anima (cioè gay) e il
recente viaggio di Papa Francesco sull’isola
Sono
uno di quei migranti che il Papa è andato a incontrare e ha cristianamente e
umanamente difeso. Non sono un africano.
Il
colore della mia pelle non è nero. Sono un bianco, occidentale, europeo,
italiano, romano.
E’
il colore della mia anima che per alcuni, Papa compreso, è diverso: è nero.
Sono omosessuale. Ogni giorno mi avvicino al mio mare, e scorgo tra le onde il
mio barcone rattoppato. Il mio scafista mi aggancia e mi chiede di camuffarmi,
di rinunciare al colore della mia anima se voglio arrivare dall’altra parte
delle onde, all’approdo sulla mia Lampedusa, la piccola isola terra di nessuno,
un ponte verso quella che mi dicono chiamarsi la penisola e il continente dei
diritti: dove l’esistenza dignitosa si staglia come una roccia immensa da
scalare a mani e piedi nudi, dalla quale il vento dell’indifferenza e le onde
del pregiudizio, dell’odio e dell’aridità morale, mi scaraventano via violentemente,
e sulla quale io, migrante extracomunitario dell’anima, cerco con tutte le mie
forze di attraccare.
Nessuo
riconosce la mia anima, perché è all’interno nella mia intimità, nella mia
sessualità, nel mio essere. Pensano sia uno di loro. Ma io vengo dal mio
barcone, sono spinto a calci dal mio scafista e prima di approdare alla mia
Lampedusa quotidiana, i pescecani, le onde, i venti, la fame e la sete tentano
di fermare il mio approdo sulle rive dell’esistenza dove mi dicono che, tra
mille ostacoli, forse si può “essere ciò che si è”, Ma proprio da quelle rive
del nuovo continente soffia il vento a me contrario, mosso anche da quello
stesso Papa e dalla sua istituzione, che mi respingono indietro nel mare
dell’ipocrisia che ci circonda da secoli.
Al
Papa dico che non basta andare a Lampedusa per incontrare i migranti su cui
piangere e commuoversi, se poi ci si dimentica di quelle migliaia di migranti
dell’anima che sono sotto i suoi occhi, e che il vento della paura respinge
indietro nella terra sel non-essere. Come un Ulisse naufrago, che ha sfidato
l’ignoto per renderlo noto, muoio in quelle acque alle quali avevo affidato la
mia vita dignitosa. E nessuno piange per me, nessuno mi chiama.
Lettera
firmata
Non
chieda comprensione alla Chiesa, le chieda piuttosto di fare i conti con una
contraddizione che è alla base della sua riprovazione dell’omosessualità.
Secondo la morale cattolica occorre sempre seguire la natura, sia quando si
nasce (per cui è guardata con sospetto qualsiasi fecondazione artificiale, sia
omologa che eterologa), sia quando si muore (per cui la vita va tenuta in vita
anche quando la coscienza, ma qui potremmo dire anche l’anima, ha già da tempo
abbandonato il corpo).
Per
la Chiesa a regolare la sessualità “secondo natura” è la “riproduzione”, per
cui sono banditi gli anticoncezionali, le pratiche abortive, la masturbazione e
quindi anche l’omosessualità in quanto non riproduttiva.
A
dar manforte alla religione (che tra l’altro prese a condannare l’omosessualità
solo a partire dal XIII secolo) subentrò nell’800 la medicina scientifica, che,
con lo sguardo limitato all’anatomia, alla fisiologia e alla patologia dei
corpi, stabilì che, essendo gli organi sessuali deputati alla riproduzione che
può avvenire solo tra maschio e femmina, ogni pratica sessuale fuori da questo
registro era da considerarsi patologica. Così l’omosessualità divenne, da
“peccato”, “malattia”. E alla religione non parve vero di poter radicare
l’albero della conoscenza del bene e del male sul terreno solido della scienza.
Se
non che la “natura”, invocata sia dalla religione che dalla scienza, genera
eterosessuali, omosessuali, bisessuali, e allora a quale “natura” si appellano
religione e scienza quando rubricano l’omosessualità tra le pratiche “contro
natura”? per questa ragione la soluzione del problema va cercata interpellando
non la natura, ma la cultura, dove vige il primato non dei principi, ma delle
persone, i cui legami affettivi sono prima di tutto caratteriali,
intellettuali, emotivi, comportamentali, e solo dopo anche sessuali.
Se
si accetta questa impostazione, la riproduzione degli omosessuali è una
violenza grave, oltre che all’intimità delle persone, anche alla democrazia,
perché come scrive Platone nel Simposio
(182 d): Ovunque è stabilito che è riprovevole essere coinvolti in una
relazione omosessuale, ciò è dovuto a un difetto dei legislatori, al dispotismo
dei governanti e alla vita dei governati”. Ma la Chiesa, per sua natura, non è
democratica, e quando antepone i principi alle persone, forse non è neppure
fedele al messaggio evangelico.
umbertogalimberti@repubblica.it
– da Donna di Repubblica – 10-8-13
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