Vivere
senza paura, e di conseguenza con ottimismo, sicurezza di sé e speranza, non
significa chiedere gli occhi davanti alla sofferenza, né è frutto di una
peculiarità personale che alcuni possiedono e altri no.
In
ogni epoca, l’assenza di paura è stata il tratto che ha accomunato i pensatori
spirituali della visione rigenerante, in contrasto con l’idea che noi esseri
umani siamo particelle accidentali in un universo indifferente al nostro
destino, e la nostra evoluzione un processo casuale privo di scopo.
Il
momento in cui scegliamo di guardare al di là delle circostanze coincide in
realtà con l’inizio del nostro viaggio spirituale. Quando cominciamo ad
attingere alle risorse interiori di cui tutti disponiamo, può inizialmente
succedere di entrare in contatto con nuoce paure. La paura che il nostro
attuale stile di vita, quello che siamo abituati a considerare come l’unico
possibile, possa invece essere a rischio. La paura di sembrare stupidi, di
sbagliare, di avere privilegiato le cose sbagliate ed essersi lasciati sfuggire
quelle più importanti. (I greci hanno una parola per definire questo errore di
valutazione: amartia, che tra
parentesi si può tradurre come “peccato”).
La
paura di conoscere Dio è in realtà una paura che nutriamo per il nostro ego, il
quale si costruisce intorno a ciò che pensiamo di essere, che sosteniamo di
essere davanti agli altri, e che vogliamo sembrare. Chi è stato accanto a una
persona malata di Alzheimer sa che questo genere di esperienza può metterci
profondamente in discussione, in quanto ci consente di capire che in noi esiste
qualcos’altro oltre all’ego, alla mente e alla personalità. Bernard Levin, il
mio primo amore poi divento un amico per tutta la vita, fu colpito da questa malattia
negli anni Novanta. Ero al suo fianco quando intraprese il viaggio in quel
mondo parallelo. Nel 1988 venne a stare da me a Santa Barbara, e consultammo
diversi dottori di Los Angeles per capire come mai Bernard perdesse in
continuazione l’equilibrio e non riuscisse a ricordare certe parole.
Ripensandoci oggi, mi stupisce che nessuno abbia diagnosticato un principio di
Alzheimer.
Il
momento più duro, per me e naturalmente ancor di più per lui, arrivò quattro
anni dopo. All’epoca io vivevo a Washington, e Bernard venne a stare a casa
mia. Lo strumento di cui era stato maestro – la parola – lo stava abbandonando.
L’ultima volta che lo vidi, a Londra, poco prima che morisse, l’Alzheimer era
progredito al punto che di me Bernard non conservava più alcun ricordo. Bevemmo
il tè insieme, uno dei suoi riti preferiti. Ma per quanto mi sforzassi di
accennare ai ricordi, nomignoli, momenti condivisi, stabilire una connessione
fu impossibile. Di fronte a me c’era l’uomo che mi aveva fatto conoscere il
meglio della letteratura, dell’arte, dell’opera, eppure in quel momento ebbi la
sensazione che mi stesse insegnando, nel più doloroso dei modi, qualcosa di
molto più profondo: che neppure il cervello più brillante, può definire, se non
in minima parte, ciò che siamo. Che anche i nostri risultati più straordinari
sono solo una piccola parte di noi.
Fu
una lezione davvero crudele.
“Ho
cominciato a domandarmi, ha scritto una volta Bernard, “come sarebbe trovarsi
prigionieri nella realtà anziché nella fantasia, e sono giunto alla
conclusione, sorprendente e inquietante insieme, che a condizione di poter
leggere e scrivere ciò che mi aggrada, e di avere un compagno di cella amabile
(o meglio ancora una condanna alla prigionia in isolamento), non troverei la
cosa affatto terribile come dovrei”. Ormai tutto questo gli era negato, eppure
in lui percepivo una presenza emotiva intensa, diversa da qualsiasi altro suo
aspetto avessi mai conosciuto, come se le qualità intellettuali e i successi
avessero smesso di mascherare l’essenza della sua persona. Ho sentito altre
persone raccontare di esperienze simili. E’ come se, venuta meno la mente,
qualcos’altro cominciasse a brillare, qualcosa che fino a quel momento era
stato bloccato dall’instancabile fabbrica dell’intelletto. E dunque, come nella
malattia una persona può trovare nuova vita, allo stesso modo il suo spirito
può trovare nuova vita al di là della mente.
(traduzione
di Matteo Colombo)
Arianna Huffington - Donna di Repubblica - 3-8-13
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