La
lettera dall’altra sponda della fine del mondo impiegò trentacinque anni per
essere scritta. Fu il tempo necessario perché un ragazzo quattordicenne con la
pelle penzolante dal braccio come una fodera strappata trovasse il coraggio di
diventare vecchio e di non odiare più. Akihiro Takahaschi stava andando verso
il suo ginnasio, alle 8 e 15 del 6 agosto 1944, quando un uomo di cui ignorava
l’esistenza, ai comandi di un aereo che nessuna a Hiroshima aveva mai visto,
fece volare da novemila metri di altezza la prima bomba atomica usata in guerra
sopra la sua testa, e sopra quella di altri duecentocinquantamila esseri umani.
Quando
finalmente, ormai vicino ai cinquant’anni, le mani sfigurate dalle orribili
cicatrici da radiazioni-icheloidi-le orecchie dissolte nella città altoforno,
gli organi interni consumati dal tenace lavoro dell’atomo, Akihiro poté
finalmente guardare negli occhi colui che credeva fosse un demonio, il pilota
dell’Enola Gay Paul Tibbets, vedette spuntare qualche lacrima. E pensò che
fosse un uomo anche lui, al quale poter scrivere, con il quale parlare. Fu da
quell’incontro diretto nel 190, a Washington, che il ragazzo di Hiroschima e il
cavaliere dell’Apocalisse cominciarono a scriversi.
Quel
carteggio è improvvisamente affiorato dall’immenso serbatoio di rottami, di
pezzi di vite umane, di cose e di dolore che ancora giace sotto la crosta della
nuova Hiroshima. Fu il giapponese, che sarebbe divenuto direttore del Museo
della Pace, costruito a pochi passi dal ponte a “T” che il bombardiere
dell’Enola Gay usò come bersaglio, a impugnare il pennino buono, quello per la
grafia elegante del Kanji, degli ideogrammi, e a scrivere per primo.
Akihiro
e Paul si erano conosciuti a Washington, nel giardino dietro al Russel Building,
uno dei pala<<i per gli uffici dei parlamentari, dove nel giugno del 1980
era stata organizzata una mostra sul bombardamento di Hiroshima e di Nagasaki.
La tv di Hiroshima, la RCC, aveva pagato il viaggio ad Akihiro, uno degli hibakusha, i superstiti, e aveva chiesto
al colonnello pilota del B-29 Enola Gay di incontrare il giapponese. Tibbets
aveva accettato, molto a fatica, e sei mesi dopo, in novembre, Akihiro
Takahashi trova il coraggio di spedire la sua prima lettera Comincia, con
esemplare timidezza ed educata evasività nipponica a parlare del tempo. “E’
quasi inverno e qui comincia a fare freddo”. Ma non è del clima che vuol
parlare al bombardiere. In quel novembre, l’America ha eletto Ronald Reagan
presidente e la fame, ingiusta, di “cowboy nucleare “ terrorizza Akihiro. “Si
ricorda che cosa ci dicemmo mentre lei stringeva le mie mani e sentiva con le
dita le mie cicatrici? Ci dicemmo che quando la guerra comincia, va avanti
secondo i piani e le dinamiche della guerra e per questo non bisogna ai cominciarla.
Io le dissi che non provavo più odio verso l’America neppure mentre ogni giorno
devo combattere con le sofferenze fisiche lasciate da quel giorno e certamente
non verso di lei, che eseguiva gli ordini e faceva il suo dovere….soprattutto
ora che ho visto le lacrime di un cuore umano scivolarle dagli occhi”.
…
Il
colonnello Tibbets, divenuto nel frattempo generale e poi presidente di una
società di aviazione impiegherà ben otto mesi per rispondergli. Scriverà a
macchina, sulla cara intestata della società Aviation Jet, prendendo subito le
distanze. “Chiedo scusa per il ritardo, ma molte cose sono accadute. Ho visto
un bel documentario della BBC sulla mia missione e i ha fatto piacere che
abbiano rispettato i fatti, senza interpretazioni”
…
Ci
vuole altro per scoraggiare un uomo che camminò per ore verso il fiume sul
quale galleggiavano cadaveri e dove si buttavano zombie in cerca di un
impossibile refrigerio allo strazio delle ustioni. Il 5 ottobre 1982 gli scrive
sei fogli fitti di ideogrammi, più disordinati, meno calligrafici, per invitare
Tibbets ad apparire con lui in uno speciale della NHK, l autorevolissima tv
pubblica giapponese. Gli illustra le bellezze delle antiche città imperiali,
vedere quella nazione nella quale Tibbets non mise mai piede dopo aver visto il
fungo alzarsi fino a dodicimila metri. Appena cinque righe: “Dopo lunga
riflessione, purtroppo non posso accettare”.
…
Sedici
anni passeranno ancora perché il ragazzo di Hiroshima, ormai ultrasettantenne
riprenda calamaio, pennino e carta, nel 2003. “Sono passati vent’anni da quando
ci stringemmo le mani e fui pieno di felicità e di speranza…ho lasciato il mio
lavoro per il Comune di Hiroschima e mi dedico a raccontare ai bambini che cosa
accadde e che cosa fare perché non accada mai più. Ormai ho 72 e non credo vivrò ancora molto. Mi farebbe
felice sapere che anche lei, che deve averne ormai 90, dedicasse i suoi ultimi
anni a costruire la pace”. Silenzio.
…
Paul
Tibbets morirà quattro anni dopo aver ricevuto l’ultima lettera, il primo
novembre 2007. Akihiro Takahashi era stato pessimista: avrebbe vissuto ancora a
lungo, dopo l’ultima lettera, perché il destino che aveva fatto di lui uno dei
soli quindici sopravvissuti su settanta compagni di scuola lo avrebbe tenuto
vivo fino agli ottan’anni. Morì nel 2011, il primo di novembre. Come Tibbets.
Vittorio
Zucconi – La Repubblica 18-8-13
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