Quella Casa Mai Finita Nel Paese Delle Riforme
Immaginate di abitare in una casa in continua ristrutturazione. La cucina non è ancora finita, e bisogna rifare il living.
Il bagno non ha ancora i sanitari, e urgono gli interventi in camera da letto. Si finirebbe per vivere un precariato permanente, in cui niente è definitivo e niente quindi può assestarsi e migliorarsi. Qualcosa di simile accade all’università.
Quest’anno, per esempio, il mondo accademico è nel caos per il passaggio dalle facoltà ai dipartimenti previsto dall’ennesima riforma. Se negli ultimi decenni ci fossero state meno cambiamenti e più tempo per metterli a regime, forse i risultati sarebbero stati comunque migliori, perfino con riforme peggiori. Alla fine, infatti, non ci si può aspettare che rettori e presidi facciano miracoli, anche in presenza di buoni progetti, se per l’ennesima volta si chiede loro di rimaneggiare pesantemente l’organizzazione, la didattica, la ricerca e per giunta con meno soldi.
Anche le università, certo, hanno le loro colpe. L’esperienza dimostra che quelle virtuose tendono a esserlo con qualunque riforma, quelle scadenti malgrado qualunque riforma. Ecco un paio di esempi concreti di questa capacità di sfuggire a ogni correzione.
La riforma Berlinguer del 1999, cosiddetta del 3+2 ha introdotto una laurea triennale con contenuti più pratici, mirata a preparare gli studenti al mondo del lavoro, e una laurea magistrale di due anni con un percorso più specialistico e aperto verso la ricerca. Come è finita? A parte giudizi complessivamente non positivi, le università che erano già orientate verso il mondo del lavoro non hanno avuto particolari difficoltà ad adeguarsi allo spirito della riforma, mentre le altre si sono limitate a un rispetto formale, prevedendo corsi più leggeri, meno pagine da studiare, senza che questo migliorasse l’esito occupazionale dei loro laureati.
I professori a contratto sono un altro esempio di come il sistema finisca per salvaguardare lo status quo. Le docenze a contratto avrebbero dovuto offrire un ponte con il mondo del lavoro e portare negli atenei l’esperienza di professionisti di valore, spesso sono servite invece da assegno di sussistenza per i troppi precari che invecchiano ai margini dell’insegnamento. D’altra parte per il sistema universitario l’antagonismo fra formazione per il lavoro e ricerca e, come dire?, fondante.
Per questo, ora che sia nel bel mezzo del cantiere di un’ennesima riforma, è difficile essere ottimisti. Il consiglio per i ragazzi è: potendo, scegliere le università per fama e numeri (i dati sull’occupazione, chiedeteli agli uffici di placamento degli atenei: quelli virtuosi tendono a sbandierarli), le migliori per qualità/prezzo. Ma, siccome le migliori le conoscono tutti, è opportuno fare uno sforzo in più per cercare i piccoli casi di valore, spesso nascosti nella provincia.
Per quanto riguarda invece le scelte dei politici, il primo passo per un miglioramento complessivo potrebbe essere dare più soldi alle migliori: quelle che offrono una formazione con alte possibilità di trovare lavoro e vantano un’alta qualità della ricerca. Per premiare, comunque si dovrebbe prima valutare. Esiste un’agenzia con questo compito, l’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell’Università e della ricerca).
Ma se andate alla voce “Valutazioni” del sito (www.anvur.org) troverete dei desolanti “Pagina in costruzione”. I lavori sono sempre in corso. Ma non finiscono mai.
Aurelio Magistà- Venerdì di Repubblica 22-6-12
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