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sabato 7 luglio 2012

Lo Sapevate Che: La Modica Quantità


ORA SI CAPISCE perché i governi preferiscono aumentare le tasse. Soprattutto nei Paesi a statalismo diffuso come l'Italia, la spesa pubblica è l'"oggetto" del contratto sociale e il cuore della costituzione materiale. Tagliare la spesa equivale a rinegoziare il primo, e a riscrivere la seconda. Per questo il decreto sulla "spending review" varato da Monti, oltre che un forte impatto economico, ha un alto costo politico.

La lama del governo affonda non solo sugli sprechi, ma nella carne viva della società italiana. La tempestività è soddisfacente. Ma ancora una volta l'equità è intermittente. Il tasso di riformismo del provvedimento non è assente, ma è insufficiente: siamo alla "modica quantità".

"Tagli versus riforme". Tommaso Padoa-Schioppa, che la "spending review" la lanciò nel 2007 da ministro del Tesoro, aveva colto (ma non sciolto) il nodo gordiano. Nell'Italia del compromesso permanente sulle spalle delle generazioni future, dei diritti acquisiti e dei privilegi consolidati, delle sinecure per gli inclusi e delle ingiustizie per gli esclusi, serve innanzitutto la "revisione della spesa", non la sua "liquidazione". Un'operazione che richiede il bisturi, non il machete. Una missione che esige un'idea di Paese, non una "ideologia della cassa".

Questo, per un governo che consideri il Welfare un valore irrinunciabile dell'Occidente e non un ferrovecchio inservibile del Novecento, significa
che la spesa pubblica in molti casi va tagliata, ma in qualche altro caso va aumentata. Il saldo finale deve generare un risparmio significativo per il bilancio dello Stato. Ma insieme a questo, deve propiziare anche un "compromesso al rialzo" tra lo Stato che offre servizi e il cittadino che li produce e che se ne serve.

La "spending review" di Monti inclina più verso la voce "tagli" che non verso la voce "riforme". L'urgenza del gettito fa premio sull'efficienza del sistema. In parte era inevitabile, vista la criticità del giudizio dei mercati su un'Italia soverchiata dal suo debito sovrano e la necessità di scongiurare un nuovo giro di vite sull'Iva nel 2013. Almeno su questo, il premier ha mantenuto la promessa, costruendo una manovra estesa anche se non abbastanza profonda. Taglio per taglio. Prima di intervenire sulle "voci" più sensibili si doveva aggredire il capitolo delle spese militari, limitando o azzerando l'investimento da 12 miliardi sui caccia F-35, che servono alla Difesa come biglietto d'ingresso nelle commesse della Lockheed, ma non servono al Paese.

Risparmi per 26 miliardi non sono pochi, per un'economia che decresce da anni e per una società che sopporta sacrifici da mesi. Ma è una cura indispensabile. A dispetto del mal di pancia dei partiti, dell'ira degli enti locali, della rabbia dei sindacati e dei dubbi causidici degli economisti. Avevamo giustamente criticato il decreto Salva-Italia perché ruotava al 70% intorno agli aumenti d'imposta e rinviava i tagli di spesa. Ora che i tagli di spesa arrivano non si può opporre un dissenso uguale e contrario. Piaccia o no (e a noi questo impegno draconiano e non richiesto assunto da Tremonti non piace) l'Italia ha promesso alla Ue il pareggio di bilancio nel 2013. Per rispettare i patti, è giusto attingere con più determinazione al tesoretto "occulto" di un'evasione fiscale da 200 miliardi, e a quello "emerso" di un patrimonio alienabile da 450 miliardi. Ma non basta. E allora, delle due l'una: o si elevano le tasse, o si abbattono le spese. Non volere né l'una né l'altra è una fuga nell'irrealtà.

La voce più critica sul piano sociale riguarda la sanità. Il governo ha opportunamente rinunciato al taglio centralizzato degli ospedali minori: toccherà alle Regioni razionalizzare le strutture e portare lo standard a 3,7 posti letto ogni mille abitanti. Resta il fatto che alla sanità si chiederanno altri sacrifici per 5 miliardi in tre anni. Se si sommano agli 8 miliardi decisi dal precedente governo, il "conto" addebitato alla spesa sanitaria ammonta a 13 miliardi. Pochi, se si pensa che da noi una Tac costa il doppio che in Germania e il triplo che in Francia, e che un posto letto costa 134 mila euro l'anno in Lombardia e 200 mila in Campania. Troppi, se si pensa che l'attesa media per quella stessa Tac è di 3-6 mesi, e in molte strutture anche d'eccellenza quegli stessi posti letto mancano proprio.

Il pubblico impiego paga un dazio pesante, ma obiettivamente non devastante. Gli organici si riducono di 6.954 dipendenti e 293 dirigenti. Il ricorso alla mobilità obbligatoria fa cadere il tabù del posto fisso. Può dispiacere a un settore che da tre anni sopporta già il blocco della contrattazione. Ma è un fatto che oggi la Pubblica amministrazione paga lo stipendio a 3 milioni 458 mila 857 dipendenti che secondo la Corte dei conti, in rapporto alla popolazione residente, costano in media 2.849 euro all'anno per ciascun italiano. Più della Germania (2.830 euro), ma anche della Spagna (2.708 euro) e persino della Grecia (2.436 euro). Ed è un altro fatto che dalla produttività del settore pubblico arrivano "segnali preoccupanti". Pesano "l'assenza della meritocrazia" e la "distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori, al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali".

L'amministrazione giudiziaria fa la sua parte. La "rivoluzione epocale" di cui parla il ministro Severino è un eccesso retorico, ma lo sfoltimento di 37 tribunali minori, 38 procure e 220 sezioni distaccate non può far gridare allo scandalo, né incide sui tempi biblici della giustizia civile, che richiede in media 1.210 giorni per la risoluzione di una causa. La giustizia italiana è la più cara d'Europa, costa 67 euro l'anno per ogni cittadino, contro i 46 euro della Francia e i 22 del Regno Unito. La geografia giudiziaria del Paese è difforme e squilibrata: a Bolzano c'è un giudice ogni 110 cancellieri, a Campobasso ce n'è uno ogni 221. Gli avvocati possono urlare finché vogliono il loro sdegno corporativo. Ma disboscare questa giungla è l'affermazione di un dovere, non la lesione di un diritto.

In un quadro di austerità complessiva, anche i famosi "costi della politica" subiscono un ridimensionamento. La soppressione di 60 Province è una vittoria del premier, che ha resistito alle pressioni dei cacicchi, ed è riuscito a fare quello che i partiti promettono da anni e non fanno. Se si aggiungono il dimezzamento delle auto blu, l'abbattimento dei contratti d'affitto, il taglio parziale delle poltrone nei cda delle società pubbliche e delle consulenze negli enti, non si può dire che Monti abbia ceduto alle solite lobby.

Una volta tanto, il Palazzo paga il suo tributo al risanamento. E un provvidenziale ripensamento notturno ha evitato al governo la più folle delle scelte: il taglio di altri 200 milioni all'Università, per dirottare il ricavato al sostegno delle scuole private parificate. Sarebbe stato un danno simbolico ma enorme per un'istruzione pubblica già mortificata in questi anni, e una beffa per i giovani ai quali si promettono ponti d'oro sospesi sull'abisso. Per fortuna il buon senso delle istituzioni repubblicane ha fatto premio sul consenso delle gerarchie ecclesiastiche.

La "spending review" è un "metodo di governo" della cosa pubblica, e dunque è molto più che un antidoto contro il deficit. Questo decreto è solo un passo iniziale, e ancora parziale, sulla strada del cambiamento dei processi di riqualificazione della spesa. Ne serviranno altri, più convincenti. Ma intanto il primo è stato compiuto. Ugo La Malfa sosteneva che in genere "l'Italia fa riforme con spirito corporativo, quindi fa contro-riforme". Almeno questo, stavolta, non è accaduto.
m.giannini@repubblica.it

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