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domenica 1 luglio 2012

Lo Sapevate Che: Il Polo Nord



Gli Uomini Che Morirono Per Il Polo Nord Cercando Un Mare che non c’era

Partirono Inglesi, Americani, Norvegesi, molti convinti dalle teorie del cartografo August Petermann, secondo cui oltre i ghiacci, c’erano acque navigabili. In tanti non tornarono. Un libro racconta l’epopea.

Dopo oltre un secolo di indifferenza, il Polo Nord è tornato al centro degli interessi mondiali. Non a caso Hillary Clinton, nel suo viaggio al Circolo Polare artico di inizio giugno, ha invitato alla cooperazione pacifica le nazioni interessate alle sue grandi risorse energetiche e alle rotte commerciali che diventeranno disponibili col progressivo ritiro dei ghiacci.
Secondo lo U.S. Geological Survey, nell’Artico si celano infatti il 30 per cento delle risorse di gas  e il 13 per cento delle risorse di petrolio non ancora scoperte (per un valore di novemila miliardi di dollari, ovvero oltre sette miliardi di euro). E, quando il ritiro dei ghiacci libererà del tutto quel passaggio a Nord-Ovest cercato per diversi secoli dai navigatori europei, le rotte attuali tra Europa e Asia si potranno accorciare di undicimila chilometri.
La nuova corsa al Polo Nord è cominciata nel 2007. con una bandiera in titanio depositata da un sottomarino russo sotto i ghiacci del Polo, ed è culminata nel dispiego “muscolare” di mille militari della Nato sull’isola Cornwallia e nella Baia di Baffin, nell’agosto 2011. Questa corsa ha però caratteristiche molto diverse da quella che avvenne nella seconda metà dell’Ottocento: se oggi il Polo lo si brama per lucido pragmatismo, allora a spingere i cuori verso Nord era un misto di idealismo e avventatezza. “In quel momento storico le zone inesplorate sull’Atlante mondiale si facevano sempre più rare. E poi il Polo Nord riluceva del fascino dei miti(era la terra degli Iperborei, bagnata da un fantomatico mare caldo) e del mistero delle montagne magnetiche, che si pensava fossero lì insieme alla voragine d’ingresso della leggendaria “Terra cava”, miraggio degli esoteristi. Inoltre, dopo Napoleone, la marina inglese non aveva più molto da fare, e le spedizioni artiche erano viste come utili esercitazioni”.
Tutto questo racconta Philipp Felsch, docente di storia della scienza alla Humboldt-Universitat di Berlino in
L‘uomo che inventò il Polo Nord (Nutrimenti,pp.280, euro 18), dove ricorda le sventurate spedizioni artiche sulla scia delle errate teorie del cartografo tedesco August Petermann. “Nella seconda metà dell’Ottocento la cartografia appariva uno strumento senza limiti, grazie all’innovazione delle mappe tematiche, che insieme alla topografia  indicavano la distribuzione di un fenomeno (per esempio la densità di popolazione, o il diffondersi di un’epidemia)” spiega Felsch. “Petermann si afferma in questo humus culturale, per di più in Germania, patria dell’idealismo priva di effettive esperienze coloniali e di grandi navigatori”. Buon teorico dunque, ma pessimo viaggiatore, Petermann affrontò con le armi della cartografia un mistero: “La scomparsa della spedizione Franklin, che in Inghilterra ebbe risonanza analoga a quella dello sbarco sulla Luna. La marina inglese, alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest, nel 1845 aveva affidato le sue due navi migliori, la Erebus e la Terror, all’esperto comandante Sir John Franklin, che era partito con grande copertura di stampa e una nazione che lo seguiva con fiato sospeso. A un certo punto, però, Franklin e le sue navi erano sparite nel nulla”, spiega Felsch. “Nel 1851 il times si chiedeva ancora: “Che fine ha fatto John Franklin?”. E nel 1852 entrò in scena Petermann, con una lettera all?Ammiragliato britannico e alla stampa: era certo che Franklin avesse superato la “muraglia di ghiaccio” del Polo, entrando in un quello che definiva con sicumera un grande Oceano Artico navigabile” spiega Felsch, “Nel 1854 si trovarono i resti di alcuni membri della spedizione e dal loro esame e dalle testimonianze degli Inuit della zona si dedusse che i membri della missione, abbandonate le navi tra i ghiacci, erano stati costretti a una marcia disperata verso sud dove si erano ridotti al cannibalismo. Per gli inglesi fu un trauma”.
Così si spense l’interesse per il Polo dell’Inghilterra, ma si accese quello dell’America. L’esploratore Elisha Kane organizzò con l’American Geographical Society una spedizione tra il 1853 3 il 1855 che contò vittime per scorbuto e un ammutinamento. Pur fallendo, sembrò però alimentare le teorie di Petermann: due membri della spedizione sostennero infatti di aver visto il famoso mare polare sgombro dai ghiacci. Sempre più popolare in patria, Petermann fu quindi il diretto ispiratore della spedizione polare tedesca del 1865, anch’essa fallita ma – nell’interpretazione che Petermann diede alla stampa . solo per un (inesistente) sabotaggio degli inglesi. Nel 1869 la Germania ritentò. “Però Petermann diffuse ai giornali una lettera in cui, con la scusa di spronare il capitano Carl Koldewey, in realtà si dissociava in anticipo da un eventuale fiasco” dice Felsch. “Il fallimento arrivò puntuale, e toccò anche le missioni successive, fino al disastro della spedizione americana Jeannette (1879-1881), che seppellì definitivamente la teoria fallace di Petermann.
Di tempra opposta al sedentario cartografo tedesco fu uno dei più instancabili eroi del Polo: il norvegese Fridtjof Nansen. Dopo aver trovato sulla costa della Groenlandia alcuni resti della nave Jeannette, lì arrivati dopo essere andati alla deriva, Nansen studiò le correnti ed elaborò una strategia originale. Nel 1893 arrivò via mare all’isola di Nuova Siberia, saldò la nave al ghiaccio e si lasciò trasportare verso nord dal ghiaccio in movimento. Finchè, sorpreso dalla lentezza della deriva, salì stizzito su una slitta trascinata da cani in direzione Polo. Tocco il punto più a nord mai raggiunto, ma poi, per problemi di praticabilità del pack e orientamento, ripiegò verso la Terra di Franz Josef, dove passò l’inverno in un igloo da lui costruito, finchè l’esploratore inglese Frederick Jackson arrivò a soccorrerlo.
Ancora più temerario di Nansen fu l’ingegnere svedese Salomon August Andrée, che tentò di arrivare al Polo con una mongolfiera. Acclamato dalla stampa internazionale (da noi Giovanni Pascoli gli dedicò una poesia), partì l’11 luglio 1897 dalle isole Svalbard e sparì subito nel nulla. La sua sorte fu nota solo nel 1933, quando ne furono trovati i resti, il diario e le fotografie scattate in viaggio. “Il suo volo in realtà durò solo dieci ore, seguite da due giorni di penosi rimbalzi sul ghiaccio: il pallone, appesantito dal ghiaccio, aveva perso sempre più quota. E furono inutili i piccioni viaggiatori e le bottiglie con messaggi, suoi unici mezzi per chiedere aiuto” commenta Felsch. “Andrée e i suoi due compagni dovettero cercare la via del ritorno a piedi, sparando a trichechi e orsi polari per nutrirsene, fino a quando la trichinellosi, contratta mangiando carne d’orso malcotta, li uccise”.
La conquista del Polo Nord arriverà con l’americano Robert Pear, nel 1909, in un secolo nuovo e già pronto a riporre in un angolo quel mondo bianco, così lontano e alieno da sembrare irreale, e gli sconsiderati, ingenui avventurieri che gli avevano sacrificato la vita, per dedicarsi alle guerre e all’odio, tanto più vicini alle latitudini del cuore umano.
Giuliano Aluffi – Venerdì di Repubblica 22-6-12

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