Alla Fine degli anni ’80 ho trascorso tre anni al
MIT di Boston. Ero una giovane ricercatrice che muoveva i suoi primi passi nel
campo delle cellule staminali. In quegli anni e nei successivi, l’essere donna
non ha intralciato né rallentato la mia crescita professionale. Anche se non è
raro, ancora oggi, ritrovarmi ad essere l’unica scienziata in una stanza piena
di colleghi, oppure di notare la mancanza di colleghe nei dibattiti accademici.
Alle nostre fortunate latitudini, dove si ha la possibilità di scegliere studi,
carriere e la parte del mondo in cui realizzare le proprie scelte, non credo si
possa parlare di una “questione femminile” nella scienza, quanto di una
“rincorsa” di chi, suo malgrado, è partito in ritardo e zavorrato da
pregiudizi. Rita Levi Montalcini considerava inaccettabile che a condizionare
istruzione e affermazione di una persona fosse il fatto assolutamente casuale
di avere nel Dna due cromosomi X invece che un cromosoma X ed uno Y. Di anni,
da quando la Montalcini si iscrisse all’università – con i risultati
straordinari che conosciamo – superando le consuetudini dei tempi, ne sono
passati a decine. Ma non sono stati sufficienti a cancellare le disparità sul
fronte dell’affermazione femminile in tutti i campi e livelli. I recenti Nobel
assegnati a Donna Strickland per la fisica e a Frances H.Arnold per la chimica
sono un esempio di come il rapporto tra il genere femminile (guai a chiamarlo
sesso debole) e la scienza resti per molti un accostamento che incuriosisce. Al
di là delle conoscenze e delle scoperte che hanno reso Strickland e Arnold
meritevoli dell’ambito premio – in quanti le ricordano? – a fare notizia è
stata la circostanza, in entrambi i casi rara, che fossero donne: la quinta per
la chimica e la terza per la fisica, nei 118 anni di storia dei Nobel. Sono
partita per Boston tre mesi dopo essermi sposata. La distanza avrebbe potuto
distruggere la voglia di ricercare o quella giovane famiglia che cresceva
separata. Mio marito e i miei due figli, nati quando ero un ricercatore
precario, invece sono sempre stati i miei più convinti “complici” di una vita
fatta di continui viaggi nel minor tempo di ore possibili, quotidiani sensi di
colpa da risolvere (soprattutto quanto i figli erano piccoli), rientri a tarda
sera e pasti preparati di notte. Oggi dirigo un laboratorio alla Statale di
Milano dove la presenza femminile è preponderante: 8 uomini su 25 persone.
Conosco diverse donne con ruoli apicali e una famiglia. Ne conosco molte altre
che, pur investendo ogni loro atomo nello studio o nel lavoro, al momento di
tentare il “salto” non si percepiscono all’altezza o decidono di costruire il
proprio futuro come se dovesse per forza essere subalterno al ruolo di moglie e
madre. L’ultimo Rapporto sullo stato del
sistema universitario e della ricerca dell’ANVUR ci informa che la presenza
femminile tra i docenti universitari è in crescita “costante e regolare”, che
il numero di laureate supera quello dei laureati e che tra dottorandi e
assegnisti i due sessi si equivalgono. La forbice, purtroppo, si inverte nei
gradi superiori e si allarga man mano che si sale ai livelli di professore
associato e ordinario (dove gli uomini sono il 78%). Ma oggi, a differenza del
passato, il “soffitto di cristallo” che limita la crescita professionale delle
donne si conosce e ci si interroga su cause e soluzioni. Quote rosa? Coaching?
Politiche di sostegno alla famiglia? Tutto può e deve essere esplorato, senza
preconcetti, cercando la formula più efficace per ciascuna realtà sociale. Il
cristallo è noto per la sua durezza, ma si può infrangere d’un tratto. Si
tratta solo di cercare insieme il “punto di rottura”. Forse il primo, quello
condizionante, è dentro ciascuna di noi.
Elena
Cattaneo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 novembre 2018
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