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sabato 15 dicembre 2018

Lo Sapevate Che:Il Soffitto di cristallo ha un punto di rottura...


Alla Fine degli anni ’80 ho trascorso tre anni al MIT di Boston. Ero una giovane ricercatrice che muoveva i suoi primi passi nel campo delle cellule staminali. In quegli anni e nei successivi, l’essere donna non ha intralciato né rallentato la mia crescita professionale. Anche se non è raro, ancora oggi, ritrovarmi ad essere l’unica scienziata in una stanza piena di colleghi, oppure di notare la mancanza di colleghe nei dibattiti accademici. Alle nostre fortunate latitudini, dove si ha la possibilità di scegliere studi, carriere e la parte del mondo in cui realizzare le proprie scelte, non credo si possa parlare di una “questione femminile” nella scienza, quanto di una “rincorsa” di chi, suo malgrado, è partito in ritardo e zavorrato da pregiudizi. Rita Levi Montalcini considerava inaccettabile che a condizionare istruzione e affermazione di una persona fosse il fatto assolutamente casuale di avere nel Dna due cromosomi X invece che un cromosoma X ed uno Y. Di anni, da quando la Montalcini si iscrisse all’università – con i risultati straordinari che conosciamo – superando le consuetudini dei tempi, ne sono passati a decine. Ma non sono stati sufficienti a cancellare le disparità sul fronte dell’affermazione femminile in tutti i campi e livelli. I recenti Nobel assegnati a Donna Strickland per la fisica e a Frances H.Arnold per la chimica sono un esempio di come il rapporto tra il genere femminile (guai a chiamarlo sesso debole) e la scienza resti per molti un accostamento che incuriosisce. Al di là delle conoscenze e delle scoperte che hanno reso Strickland e Arnold meritevoli dell’ambito premio – in quanti le ricordano? – a fare notizia è stata la circostanza, in entrambi i casi rara, che fossero donne: la quinta per la chimica e la terza per la fisica, nei 118 anni di storia dei Nobel. Sono partita per Boston tre mesi dopo essermi sposata. La distanza avrebbe potuto distruggere la voglia di ricercare o quella giovane famiglia che cresceva separata. Mio marito e i miei due figli, nati quando ero un ricercatore precario, invece sono sempre stati i miei più convinti “complici” di una vita fatta di continui viaggi nel minor tempo di ore possibili, quotidiani sensi di colpa da risolvere (soprattutto quanto i figli erano piccoli), rientri a tarda sera e pasti preparati di notte. Oggi dirigo un laboratorio alla Statale di Milano dove la presenza femminile è preponderante: 8 uomini su 25 persone. Conosco diverse donne con ruoli apicali e una famiglia. Ne conosco molte altre che, pur investendo ogni loro atomo nello studio o nel lavoro, al momento di tentare il “salto” non si percepiscono all’altezza o decidono di costruire il proprio futuro come se dovesse per forza essere subalterno al ruolo di moglie e madre. L’ultimo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca dell’ANVUR ci informa che la presenza femminile tra i docenti universitari è in crescita “costante e regolare”, che il numero di laureate supera quello dei laureati e che tra dottorandi e assegnisti i due sessi si equivalgono. La forbice, purtroppo, si inverte nei gradi superiori e si allarga man mano che si sale ai livelli di professore associato e ordinario (dove gli uomini sono il 78%). Ma oggi, a differenza del passato, il “soffitto di cristallo” che limita la crescita professionale delle donne si conosce e ci si interroga su cause e soluzioni. Quote rosa? Coaching? Politiche di sostegno alla famiglia? Tutto può e deve essere esplorato, senza preconcetti, cercando la formula più efficace per ciascuna realtà sociale. Il cristallo è noto per la sua durezza, ma si può infrangere d’un tratto. Si tratta solo di cercare insieme il “punto di rottura”. Forse il primo, quello condizionante, è dentro ciascuna di noi.
Elena Cattaneo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 novembre 2018

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