Storicizzare il terrorismo e la
violenza politica per comprendere quello che è avvenuto in questi ultimi anni:
anche se gli storici sono i primi a relativizzare la massima ciceroniana Historia magistra vitae, mettere i
fenomeni e i processi in una prospettiva storica è di grande aiuto per cercare
di capire il presente. Compreso quello che Francesco Benigno nel suo ultimo,
densissimo libro Terrore e terrorismo.
Saggio storico sulla violenza (Einaudi, pp. 392) chiama “i fantasma del
nostro tempo”. Professore di Storia moderna alla Scuola Normale di Pisa e
direttore dell’Istituto meridionale di storia e scienze. Professore di Storia
moderna alla Scuola Normale di Pisa e direttore dell’Istituto meridionale di
storia e scienze sociali, Benigno si avventura nei meandri tortuosi ed
estremamente ambigui e scivolosi della violenza come strumento politico, dal
Terrore della Rivoluzione francese ai moti nazionali dell’Ottocento, dagli
attentati degli anarchici agli anni di piombo, sino alla “guerra globale al
terrore” jihadista e islamica. Lo storico (già autore per Einaudi di La mala setta, un saggio che fece
discutere, sugli intrecci tra criminalità organizzata e Stato unitario durante
il suo primo ventennio di vita) fa del terrorismo lungo i secoli della
modernità un oggetto di indagine scientifica, per scoprire le invarianti e le
costanti che si ripresentano. Senza relativizzarlo in alcun modo, naturalmente.
Ma nella consapevolezza della problematicità dell’operazione, che – come ci
dice in questa intervista – “nasce essenzialmente dal fatto che “terrorismo”
non è una parola neutra o una categoria puramente descrittiva, ma un concetto
valutativo, di tipo politico-normativo e con connotati di giudizio morale.
Nonché un’etichetta dispregiativa impiegata da governi e forze politiche per
stigmatizzare gruppi ostili denunciandone i comportamenti come illegittimi.
Inoltre, il termine “terrorismo” racchiude in sé due aspetti apparentemente
simili ma anche profondamente differenti, che ne rendono ancora più difficile
una definizione unitaria. Terrorismo è contemporaneamente quello
”rivoluzionario” che, attraverso la violenza, persegue la finalità della
rigenerazione della società; ma è anche una tecnica militare basata su un’azione
improvvisa, effettuata anche da nuclei molto piccoli di individui. Insomma, un
Giano bifronte”. Parrebbe così che l’ambiguità sia la chiave fondamentale per
tentare di afferrare i contorni del fenomeno terroristico. “Sì” continua
Benigno, “perché la qualifica di ”terrorista” rimanda a un carattere di
arbitrarietà, ed è sempre stata assegnata a seconda delle circostanze e degli
interessi in campo. Per esempio, prima di ricevere il premio Nobel per la Pace,
sia Menachem Begin che Yasser Arafat erano stati ufficialmente denunciati e
combattuti; e nelle sue memorie, lo stesso Begin, pur volendo smarcarsi
dall’accusa, avrebbe ricordato con vividezza quella ambiguità: “I nemici ci
chiamavano terroristi, gli amici patrioti”. E pure un altro celebre Nobel, Nelson
Mandela, era stato denunciato in carcere per 27 anni in qualità di leader di
un’organizzazione terroristica. Non stupisce, alora, che all’indomani degli
attentati dell’11 settembre l’agenzia di stampa Reuters consigliasse ai propri
giornalisti di non usare il termine “terroristi”, proprio a causa della sua
ambiguità e assenza di precisione”. In questa storia dove i piani si
intrecciano un elemento costitutivo consiste nell’attenzione spasmodica dei
gruppi terroristici per ciò che, da qualche tempo a questa parte, chiameremmo
la comunicazione politica (violenta) e le tecniche (armate) di costruzione del
consenso: “Si tratta di una dimensione centrale, le cui radici affondano nella
“propaganda col fatto”, una teoria che nasce negli ambienti dell’anarchismo
negli anni Settanta del XIX secolo, in
polemica con l’idea della rivoluzione promossa dall’alto da un’avanguardia.
Secondo questa visione, il “legalitarismo” e i libri erano inadeguati a
risvegliare il popolo dormiente: servivano le “scienze chimiche” con cui
confezionare esplosivi per fare atti dimostrativi, e la stampa clandestina per
compere un indottrinamento invisibile, da persuasori occulti. E non è un caso
che proprio in quel periodo si siano diffuse le prime forme di comunicazione di
massa, dal feuilleton alla fotografia. Ai giorni nostri, con l’istantaneità
(come quella assicurata dai social media), il sistema globale dei media offre
al terrorismo un nuovo modello di tecnologia di propaganda”. Dunque, esistono
in seno alla storia del terrorismo alcune innovazione. “Certo” prosegue
Benigno, “ma sono di più i fattori persistenti. Ci sono elementi di notevole
continuità fra il terrorismo come lo conosciamo oggi e la concettualizzazione
tradizionale dell’azione rivoluzionaria, specialmente anarchica. Allora come
adesso, difatti, essa si rivolge non tanto alla popolazione della nazione da
colpire quanto, e soprattutto, a un proprio popolo e a una propria comunità.
L’acculturazione terroristica del mondo arabo, iniziata con la
decolonizzazione, è passata per il nazionalismo, il socialismo e il comunismo,
ovvero per ideologie partorite in Occidente. E vale pure per l’altra faccia
della questione. Si pensi al fio rosso che dalla polizia segreta zarista
impegnata a reprimere il populismo e il nichilismo russi arriva alla Ceka e al
Kgb, fino all’attuale Fsb, ovvero i servizi segreti sovietici e postsovietici
che hanno fatto tutti ricorso a strategie fondate sul terrorismo. Esiste una
continuità anche nei metodi delle polizie e dei servizi occidentali, il cui momento
più importante nel secondo Novecento ha coinciso con e teorie della “scuola
francese” della controinsurrezione, elaborate all’indomani delle sconfitte in
Indocina, e sperimentate per la prima volta nel corso della guerra d’Algeria,
mettendo insieme controffensiva ideologica, ricorso alla tortura e tecniche
psicologiche”. “Nella contemporaneità” conclude lo storico “il terrorismo
identifica una disfunzione. Io invece intendo dimostrare come esso costituisca
parte integrante di un codice fondamentale dell’ordine sociale, quel discorso
sicuritario che presiede alla sicurezza collettiva. E, quindi, non è veramente
un mondo altro da noi”.
Massimiliano Panarari – Cultura – Il Venerdì di La Repubblica
– 30 novembre 2018
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