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giovedì 13 dicembre 2018

Lo Sapevate Che: Lo Spazzacamino, Eroe della Modernità....


 Il primo fu mio nonno Luigi nel 1910, poi ci fu mio papà, Franco. A 9 anni era già per camini. Io avevo 14 anni. Mio figlio Misael, a 21, è appena entrato in “quest’avventura”. Livio Milani, spazzacamino da generazioni, vive e lavora in Val Vigezzo, Piemonte. Qui ogni anno si svolge il Raduno internazionale degli spazzacamini perché da questa valle, tra Seicento e Settecento, partirono a migliaia per pulire canne fumarie in tutta Europa. Erano bambini soprattutto. Per infilarsi meglio. “Oggi di camini da scalare e raspare a mano ce n’è pochi, per fortuna”, continua Livio, “ma quando sei dentro devi usare ancora braccia, gomiti e ginocchia”.
Lo spazzacamino è stato uno dei protagonisti della modernità: Nel 1845 Giuseppe Verdi gli dedicò una romanza: “Lo spazzacamin! Son d’aspetto brutto e nero, tingo ognun che mi vien presso”. Nel 1964 Chim Chim Cher-ee di Mary Poppins vinse l’oscar per la miglior canzone: “Cam caminì, cam caminì spazzacamin allegro e felice pensieri non ho…. Scelgo le spazzole proprio a puntin con una la canna, con l’altra il camin”. Questo prima che il fumo diventasse cattivo Guardo fuori dalla finestra. Il cielo è terso. È tutto spento. Le polveri sono così sottili che non si vedono proprio. Quand’ero bambino, invece, tutto fumava. Le fabbriche, le macchine, gli adulti. L’universo era avvolto dai gas. I bambini disegnavano le casette con i comignoli accesi e nelle fiabe – cammina cammina – il fumo annunciava il miracolo del riscaldamento e del cibo sul fuoco. In Romanzo popolare (Mario Monicelli, 1974) l’operaio Ugo Tognazzi spiega a Ornella Muti: “La fabbrica si distingue dal fumo, come una bandiera. Ma lo sai che un lavoratore quando vede il fumo della sua fabbrica è come un bambino davanti al panettone? Guarda, ci sono i fumi grigi, rossi, verdi. Ecco, vedi, la mia fabbrica è quella là, a sinistra, quella col fumo giallo, dopo il gasometro”: A Milano c’era sempre la nebbia. Chissà dov’è andata a finire.
Il fumo era ovunque, in ufficio, al ristorante, nei bar. L’odore – che oggi sarebbe insopportabile – non era neppure percepito. Fumavano tutti: Humphrey Bogart, James Dean, Che Guevara, il bruco di Alice. Mio nonno le Alfa, mia nonna le Stop, mio padre le Amadis. Dalla Francia, ogni tanto qualcuno portava le papier mais, con la carta gialla. Arrivarono enfisemi, infarti e tumori, naturalmente. Ma il fumo continuò per avvolgere il mondo come una sfida insensata, una risata o un colpetto di tosse, una pernacchia alla morte. Perché fumare era sapersi finiti, ma non averne
paura, il fumo colora di bianco il respiro, il ritmo primo dell’essere vivi, quello che traduce l’esterno in interno.
La cenere, intanto, si depositava sulle cose, e tingeva l’universo di nero. Nella zona di Manchester, alcune farfalle bianche, le Biston Betularius, diventarono nere per mimetizzarsi, con le cortecce di betulla scurite dalla fuliggine. Nel dicembre 1952 Londra fu sommersa da una colata di smog. Morirono in migliaia, ma senza darsene troppo pensiero. La modernità intera, a pensarci bene, è stata di fumo: ciminiere, sigarette, locomotive, transatlantici, automobili, bombe atomiche.
Alla fine del secolo, però, il fumo, da segno di forza e potere, si trasformò in minaccia universale. Si è fatto strada il dubbio che tutto sia un veleno. Spesso è vero (come nel caso del tabacco o dell’Ilva di Taranto), e questo rende ancora più paralizzante la nostra paura. La scienza ha dimostrato che, in assenza di guerre e miseria, la morte e le malattie dipendono anche dalle condotte individuali. Dunque, diventano scelte. Diventano colpe, il corollario (l’illusione) è che se ci si comporta bene – se si evita di respirare (e mangiare) veleni – non si morirà mai.
Giacomo Papi – Donna di Venerdì – 6-10-12

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