Una tranquilla cittadina di
provincia, una domenica mattina. I due amici sono seduti al tavolino di un bar,
all’estero. Jean rimprovera a Bérenger la sua mancanza di personalità. Di colpo
un rinoceronte attraversa la piazza, quasi al galoppo. Gli abitanti del
quartiere osservano sconcertati, commentano il passaggio dell’animale raro.
Poco dopo un rinoceronte ripassa, a gran velocità, nella direzione opposta. Era
lo stesso? O un altro? L’indomani l’episodio domina le conversazioni. Arriva la
signora Boeuf, spaventata. Rivela di essere stata rincorsa da un rinoceronte
nel quale ha riconosciuto i tratti di suo marito. Chi ha la mia età, o una
formazione francese come la mia, avrà riconosciuto l’inizio di un testo
teatrale di Eugène Ionesco. Il rinoceronte fu un classico del teatro
dell’assurdo, molto rappresentato sulle scene parigine quando ero adolescente.
La storia prosegue in modo surreale. Le apparizioni di rinoceronti si anno
sempre più frequenti. Sono, si scopre, metamorfosi di tipo Kafkiano. Ma Gregor
Samsa nella Metamorfosi è l’unico a
svegliarsi trasformato in un gigantesco scarafaggio. Nella storia di Ionesco,
invece, a poco a poco tutti diventano animali, salvo il protagonista.
Trasformarsi in rinoceronte all’inizio, è un’anomalia, una sciagura orribile.
Poi diventa la normalità. Guai a chi non è rinoceronte, è lui il diverso,
emarginato, circondato. I grandi artisti hanno questa capacità: dalla loro
fantasia scaturiscono metafore universali. Ciascuno può riconoscervi un’intuizione,
un’allegoria della realtà. Le interpretazioni multiple sono legittime, sono la
prova che l’arte ci parla da un’epoca all’altra, supera la prova del tempo.
Ionesco scrisse Il Rinoceronte nel
1959. Romeno emigrato in Francia, aveva vissuto l’avanzata di due totalirismi,
il nazismo e il comunismo. L’opera venne interpretata in quella luce: una
parodia angosciante del conformismo. Il contagio del virus totalitario dapprima
colpisce una minoranza, Ma non incontra resistenze. Diventa la normalità. Rimanere
se stessi è quasi impossibile. Pericoloso. Ognuno di noi può reinventare il rinoceronte
applicandolo ai propri incubi. A me questa pièce dimenticata è tornata in mente
il mese scorso mentre correvo la maratona di New Yor. Di tante edizioni a cui
ho partecipato, era la prima così infestata da corridori che si facevano selfie
in continuazione. Chi di noi ricorda la prima volta in cui vide per strada uno
zombie umano camminare con gli occhi incoati allo schermo dello smartphone?
Impossibile ricordarlo. Probabilmente la scena ci colpì solo per un attimo,
Oggi siam circondati dai rinoceronti, o lo siamo già noi stessi. Chi ancora si
ostina a camminare guardando gli uni negli occhi è destinato all’estinzione? Ci
rendiamo conto della metamorfosi di massa cui ci hanno sottoposti i Padroni
della rete? Esperimenti da laboratorio su miliardi di esseri viventi, Cavie già
affette da una mutazione irreversibile, temo: il sequestro dell’attenzione. Nel
mio ultimo libro, Quando inizia la nostra
storia, ricordo la profezia di Marshall McLuhan, il sociologo-semiologo
canadese che nei primi anni ’60 intuì il ”villaggio globale”. Era in anticipo
di mezzo secolo, Era un genio. Sapeva vedere il dualismo del progresso: non
sempre ci migliora, anzi. Nello stesso libro evoco un’altra svolta storica,
molto diversa: le Guerre dell’Oppio con cui l’Inghilterra vittoriana impose il
narcotraffico in Cina. Precipitando una civiltà millenaria nella decadenza per
oltre un secolo. Le civiltà possono morire, eccome. Ne sono già scomparse
tante. I primi sintomi del male passano inosservati. O addirittura appaiono
benefici.
Federico
Rampini – Donna di La Repubblica- 8 dicembre 2018 -
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