Oltre cent’anni
fa un terremoto uccise tra 50 e 100 mila persone in Sicilia e Calabria. La
tragedia rivissuta nelle testimonianze dell’epoca.
“Sia male! Deve venire il terremoto che
scelga le sue vittime, e che ammazzi voi e tutta Messina”. Era la sera del 27
dicembre 1908 quando, secondo la leggenda, una donna, alla quale avevano
arrestato il figlio, correndo per le strade maledì la città siciliana.
La mattina dopo, il 28 dicembre, Messina,
Reggio Calabria e i territori intorno alla zona dell’epicentro, lo stretto di
Scilla e Cariddi, cambiarono faccia per sempre. Giovambattista Rizzo, direttore
dell’Osservatorio geodinamico e astronomico di Messina, scampato al sisma,
rilevò l’ora della prima scossa: erano le 5:20'27''. Di intensità pari al 10°
grado della scala Mercalli (che ne ha 12), il sisma uccise – si stima – fra 50
e 100 mila persone sulle due coste dello stretto. Il 90 per cento di Messina fu
rasa al suolo: case, chiese, caserme, ospedali, strade, ferrovie.
VOCI DAL
PASSATO. Cent’anni dopo, i giornali dell’epoca
restituiscono oggi la voce dei testimoni. “Ero in letto allorquando sentii che
tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro che giungeva dal di
fuori. In camicia, come ero, balzai dal letto e con uno slancio fui alla
finestra per vedere cosa accadeva. Feci appena in tempo a spalancarla che la
casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione
denso, traversato come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando
moriva”. A raccontare la sua esperienza all’Avanti! era il futuro deputato
Gaetano Salvemini, docente all’università, che quella mattina perse la moglie,
i 5 figli e una sorella. Fu l’unico sopravvissuto della sua famiglia.
Subito dopo il terremoto la regina Elena,
principessa del Montenegro divenuta sovrana d’Italia sposando nel 1896 Vittorio
Emanuele III, si recò a Messina con il marito per soccorrere i feriti. Sulle
navi della Regia Marina, trasformate in ospedali, la regina aiutò i terremotati
fasciando ferite, aggiustando ossa, assistendo i medici, portando conforto a
chi aveva perso tutto. Sono molte le testimonianze che lo attestano. “Da due
giorni la regina Elena fa la suora di carità” raccontò un ufficiale russo il 2 gennaio
del 1909 al Corriere della Sera. “Io l’ho vista ovunque, nei punti in cui
maggiore era il pericolo, nelle localitàin cui nessuno mai prima di lei aveva
osato avventurarsi”.
Il padre di Quasimodo, Gaetano, era infatti ferroviere e fu mandato, con la famiglia al seguito, a ripristinare le linee ferroviarie. E il piccolo Salvatore visse nei vagoni dei treni, insieme a molti terremotati.
SOLIDARIETÀ. Il resto del mondo, a parte i pennini di molti sismografi europei e nordamericani che rilevarono la scossa senza riuscire a localizzarla precisamente, non sapeva ancora nulla. Solo nel pomeriggio del 28 una delle imbarcazioni militari presenti a Messina, la Spica, riuscì, dopo essere uscita a fatica dal porto invaso dai detriti e aver finalmente raggiunto Marina di Nicotera, in Calabria, a mandare un telegramma a Roma.
Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti mise in moto l’organizzazione dei soccorsi, che giunsero nella mattinata del 29. Come succede in questi casi, si mobilitarono le massime cariche dello Stato.
GARA DI
SOLIDARIETÀ. Il re Vittorio Emanuele III e la regina
Elena partirono per la città distrutta, dove arrivarono la mattina del 30.
Mentre il sovrano sbarcò, a bordo della nave Slava la regina approntò un
ospedale dove furono ricoverati moltissimi superstiti. Anche diverse navi
straniere che si trovavano nel Mediterraneo per motivi militari e commerciali
si diressero verso lo stretto per prestare aiuto. Inglesi e russi furono i
primi ad arrivare, anche prima degli italiani. Poi fu la volta di tedeschi,
americani, francesi e spagnoli.
Nei giorni successivi al sisma, il mare
dello stretto si riempì di centinaia di navi che portavano viveri, coperte,
legname, generi di conforto di ogni tipo e braccia per scavare sotto le
macerie, dove erano ancora intrappolate centinaia di persone. Dalle zone
terremotate i feriti furono trasportati nelle città vicine, ma anche a Napoli e
a Roma.
BARACCHE E
MICHELOPOLI. «Una volta diffusa la notizia iniziò, per
la prima volta nella Storia, una corsa all’aiuto per i terremotati» spiega
D’Angelo. Ma ci fu anche un’altra novità. «In tutta Italia si crearono
centinaia di comitati spontanei per portare soccorsi, sia in denaro sia in
generi di prima necessità ». In molte città e paesi del regno, nelle prime
settimane del 1909, furono organizzate le cosiddette “passeggiate di
beneficenza” (raccolte itineranti di fondi), lotterie, spettacoli teatrali per
raccogliere denaro.
Le città più vicine, come Catania e
Siracusa, ospitarono nei propri ospedali, ma anche nelle scuole e nelle case
private, centinaia di feriti. Furono in molti, personaggi noti e persone
comuni, a partire alla volta di Messina per prestare il loro aiuto. Lo fece
come crocerossina Constance Hopcraft, moglie inglese del patriota Ricciotti
Garibaldi (figlio di Giuseppe). Già madre di 13 figli, volle adottare tre
bambine rimaste orfane. Partì per Messina anche il piemontese don Luigi Orione,
filantropo e fondatore del Cottolengo di Torino. In pochi giorni, a Messina,
apparvero le antenate delle baraccopoli cui ci hanno abituati i terremoti
italiani del secondo dopoguerra: le “michelopoli”.
A farle costruire fu il giovane deputato emiliano Giuseppe Micheli che, con i soldi donati dalla Cassa di risparmio di Parma, costruì alcune casupole in piazza Cairoli. Non solo, fondò anche Ordine e notizie, primo quotidiano pubblicato a Messina dopo il terremoto. «Quello che può stupire, considerando i tempi, è che non si mobilitò solo l’Italia per aiutare i terremotati» racconta D’Angelo. Quando la notizia raggiunse le capitali europee, in molti rimasero sconvolti. «Messina era allora una città conosciuta, vivace e ricca intellettualmente. Con un sistema economico basato sul commercio marittimo ospitava, già da qualche generazione, comunità inglesi, svizzere e tedesche». Numerosi stranieri visitavano la città, ricca di chiese e capolavori medioevali e barocchi. Anche americani.
ARRIVANO I
LORO. Theodore Roosevelt, presidente degli Stati
Uniti, convocò d’urgenza il Congresso. All’unanimità si decise di stanziare 50
mila dollari dollari e di mandare 16 navi della flotta americana nelle zone
terremotate. Tra i più solerti ci fu il kaiser di Prussia e Germania, Guglielmo
II. Entusiasta visitatore abituale di Messina (ci era stato, prima del terremoto,
ben 4 volte) Guglielmo aveva un amico, ex console tedesco a Napoli allora ormai
in pensione e residente in Germania con la famiglia, che aveva sposato la
figlia di un mercante inglese residente a Messina. Nella città siciliana aveva
dunque molti conoscenti. Venuto a sapere del terremoto, il kaiser inviò un
telegramma all’ex diplomatico per avere altre informazioni. Finì con una gaffe:
il console non ne sapeva ancora nulla. Forse per rimediare, il sovrano inviò
navi, viveri e sei casette in legno che vennero erette in piazza Indipendenza a
Palermo, dove molti profughi furono trasferiti. Il kaiser non fu l’unico a
regalare baracche.
Da quei nuclei provvisori nacquero piccoli
quartieri che furono chiamati “lombardo”, “svizzero”, “americano” a seconda di
chi ne aveva finanziato la costruzione. Il quartiere lombardo, eretto in
muratura, resiste ancora oggi a Messina. Come l’ospedale Piemonte. È rimasto
persino uno chalet alpino, uno dei 21 donati dalla Confederazione elvetica.
SCIACALLI. Il disastro naturale, però, non suscitò solo solidarietà. «Non mancarono
casi di sciacallaggio» spiega D’Angelo. «C’erano disperati, ma anche
approfittatori e delinquenti, che vagavano per la città razziando quello che si
trovava tra le macerie. Diverse persone colte sul fatto vennero fucilate dai
militari». Il mercato nero prosperò. Molti giornali e testimoni criticarono poi
il governo di Roma per la disorganizzazione dei soccorsi, l’inefficienza dei
militari, l’ambigua distribuzione degli aiuti e gli abusi di potere. Il fattore
più critico fu però la mancanza di coordinamento tra gli aiuti che fece perdere
tempo prezioso. Si scatenarono le polemiche: un po’ di organizzazione avrebbe
salvato molte vite. Ma il primo embrione della futura Protezione civile nascerà solo nel 1925, forse anche per
rimediare a quella débâcle.
Scala Mercalli e
Richter: qual è la differenza?
La scala Mercalli, dal nome dell'omonimo
sismologo italiano, classifica l’intensità di un terremoto in base ai suoi
effetti visibili sulle costruzioni. Solo a partire dal 4° grado di questa
scala...
La scala
Mercalli, dal nome dell'omonimo sismologo italiano, classifica l’intensità di
un terremoto in base ai suoi effetti visibili sulle costruzioni. Solo a partire
dal 4° grado di questa scala le scosse sono avvertite dalla maggior parte delle
persone e si hanno lievi lesioni ai fabbricati, mentre col 7° i danni agli
edifici si fanno seri. Il grado massimo, il 12°, prevede la totale distruzione
di ogni opera umana.
SCUOLA AMERICANA. La scala
ideata dal sismologo statunitense Richter, che classifica la cosiddetta
magnitudo di un terremoto, intende invece fornire una valutazione più oggettiva
e consente di conoscere la quantità di energia liberata dalla scossa e la sua
distruttività. Si ottiene misurando l’ampiezza delle oscillazioni del suolo
registrate dai sismografi. Ha come punto di partenza, grado zero, il terremoto
che produce un sismogramma di ampiezza massima uguale a un millesimo di
millimetro, registrato da un sismografo che si trova a 100 chilometri di
distanza dall’ epicentro.
L’energia liberata cresce all’aumentare della magnitudo: una unità in più nella scala significa un’energia trenta volte più grande e corrisponde a un’ ampiezza di oscillazione dieci volte più grande.
Focus.it
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su
e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
Salvatore Quasimodo
Scritta in
occasione dei 90 anni del padre, esalta anche la bellezza della terra siciliana
e racconta la tragedia del 28 dicembre 1908, quando Messina fu distrutta dal
terremoto e maremoto.
Immagine: Giovanni Fattori,
Tramonto sul mare (1890-95)
Nessun commento:
Posta un commento