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lunedì 17 dicembre 2018

Lo Sapevate Che: Elogio all'alterità...


È pressoché impossibile che esistano o siano mai esistiti due esseri umani identici e questo lo afferma la genetica. Chi ci sta di fronte è altro da noi e non saremo mai in grado di coglierlo nella sua interezza. L’unica cosa di cui riusciamo a renderci conto è proprio l’alterità. Da ciò si deduce che non abbiamo criteri certi per valutare le conseguenze che una nostra parola detta o non detta, o un’azione compiuta o no, possano avere o avere avuto su chi è portatore dell’alterità, vale a dire potenzialmente tutti, compresi noi stessi. Quali che siano le nostre intenzioni, le finalità del nostro agire, l’equilibrio da cui pensiamo di partire e a cui possiamo tendere, correremo comunque il rischio almeno di un parziale fraintendimento, e che il conseguimento del “bene” che può aver motivato il nostro agire si attui in maniera parzialmente o del tutto diversa dalle nostre aspettative, dalle intenzioni o dai timori. Se, come io ritengo, noi siamo prigionieri di quello che siamo, di noi stessi, e non c’è nessuno che possa venire a liberarci, giungo alla conclusione che l’uomo è impossibilitato alla libertà, che egli brancola in un buio su cui non potrà prevalere la luce e cammina su un campo minato che non è possibile bonificare. Penso che chi crede nella libertà o chi crede in Dio, in entrambi i casi, sia guidato dal bisogno interiore, da una speranza insopprimibile che, automaticamente, si trasforma in certezza. Suppongo poi che ci sia anche chi si adopra al massimo grado affinché la gente creda, così da poterla meglio controllare e schiavizzare o forse anche a fin di bene.  Enzo.vignoli@vodafone.itignoli

L’Alterità È Un tema importantissimo e, nell’esporlo, lei giunge alla conclusione che l’uomo non è libero, non perché è geneticamente determinato ma, se ho capito bene, perché, essendo ogni individuo irriducibilmente diverso dall’altro, nessun può mai sapere se le sue parole o le sue azioni vengono intese dall’altro nel senso in cui sono state da lui dette o promosse e, come effetto di questa assoluta alterità, le parole e le azioni di ciascuno non possono sfuggire all’inevitabile fraintendimento. Anch’io non credo nella libertà, ma non perché siamo tutti diversi l’uno dall’altro, ma perché ciascuno è così identico a se stesso che, se fosse libero di fare tutto e il contrario di tutto, metterebbe a rischio la sua identità. La fiducia sociale, fondamento di ogni comunità, poggia proprio sul fatto che, conoscendo l’identità di una persona, ci si aspetta dei comportamenti conseguenti a quell’identità e non altri. Ma sul rapporto identità/libertà discuteremo, quando capiterà, in un’altra occasione. Qui mi interessa sottolineare l’importanza dell’alterità, che i più vedono come un fattore che distanza l’uno dagli altri, mentre è proprio l’alterità a incuriosire e a promuovere l’interessamento per gli altri. E qui mi spingo fino a dire che senza il riconoscimento dell’alterità non si dà amore. Tanto per incominciare proviamo ad abolire quelle espressioni: “mio marito”, “mia moglie”, “mio figlio”. Perché quell’aggettivo possessivo dove l’altro viene visualizzato come cosa propria? Non è da imputare a questa mentalità abbastanza primitiva tanta violenza perpetrata sulle donne, ritenute cosa propria, e non persone che possono muoversi ed esprimersi anche al di fuori del cerchio ristretto in cui molti uomini le prevedono? E non sono da imputare a questa mentalità possessiva, che misconosce l’alterità, tutte quelle violenze psicologiche e fisiche che nei casi estremi conducono al femminicidio? Che dire poi dei figli che con fatica i genitori vedono come persone “altre” rispetto a loro, e quindi legittimati a seguire la propria strada, che magari non coincide con quella dei genitori che avevano ipotizzato per loro. Non è forse questo uno dei fattori che rende così difficile la comunicazione tra padri, madri e figli? E infine non è proprio l’alterità a rendere interessante la vita a due. Non è forse il segreto che l’altro custodisce a promuovere il desiderio di scoprire ciò che ancora dell’altro non si conosce? Percorrendo questo cammino, la convivenza non è mai noiosa, ma tale diventa quando uno presume di saper tutto dell’altro, mentre invece ha semplicemente negato l’alterità dell’altro, il suo segreto, in cui si costituisce il suo non essere come io penso che sia. Per questo mi vien da dire che la vita a due è concessa solo a quelle persone che vedono l’altro come l’artista vede la sua opera. Un’opera non cede il suo segreto che, nel caso delle persone, sempre si rinnova. Ma per questo occorre riconoscere le persone con cui si convive come “altro” da Sé, e non come cosa propria acquisita per sempre.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 8 dicembre 2018 - 

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