È pressoché impossibile che esistano o siano mai esistiti
due esseri umani identici e questo lo afferma la genetica. Chi ci sta di fronte
è altro da noi e non saremo mai in grado di coglierlo nella sua interezza.
L’unica cosa di cui riusciamo a renderci conto è proprio l’alterità. Da ciò si
deduce che non abbiamo criteri certi per valutare le conseguenze che una nostra
parola detta o non detta, o un’azione compiuta o no, possano avere o avere
avuto su chi è portatore dell’alterità, vale a dire potenzialmente tutti,
compresi noi stessi. Quali che siano le nostre intenzioni, le finalità del
nostro agire, l’equilibrio da cui pensiamo di partire e a cui possiamo tendere,
correremo comunque il rischio almeno di un parziale fraintendimento, e che il
conseguimento del “bene” che può aver motivato il nostro agire si attui in
maniera parzialmente o del tutto diversa dalle nostre aspettative, dalle
intenzioni o dai timori. Se, come io ritengo, noi siamo prigionieri di quello
che siamo, di noi stessi, e non c’è nessuno che possa venire a liberarci,
giungo alla conclusione che l’uomo è impossibilitato alla libertà, che egli
brancola in un buio su cui non potrà prevalere la luce e cammina su un campo
minato che non è possibile bonificare. Penso che chi crede nella libertà o chi
crede in Dio, in entrambi i casi, sia guidato dal bisogno interiore, da una speranza
insopprimibile che, automaticamente, si trasforma in certezza. Suppongo poi che
ci sia anche chi si adopra al massimo grado affinché la gente creda, così da
poterla meglio controllare e schiavizzare o forse anche a fin di bene. Enzo.vignoli@vodafone.itignoli
L’Alterità È Un tema importantissimo e,
nell’esporlo, lei giunge alla conclusione che l’uomo non è libero, non perché è
geneticamente determinato ma, se ho capito bene, perché, essendo ogni individuo
irriducibilmente diverso dall’altro, nessun può mai sapere se le sue parole o
le sue azioni vengono intese dall’altro nel senso in cui sono state da lui
dette o promosse e, come effetto di questa assoluta alterità, le parole e le
azioni di ciascuno non possono sfuggire all’inevitabile fraintendimento.
Anch’io non credo nella libertà, ma non perché siamo tutti diversi l’uno
dall’altro, ma perché ciascuno è così identico a se stesso che, se fosse libero
di fare tutto e il contrario di tutto, metterebbe a rischio la sua identità. La
fiducia sociale, fondamento di ogni comunità, poggia proprio sul fatto che,
conoscendo l’identità di una persona, ci si aspetta dei comportamenti
conseguenti a quell’identità e non altri. Ma sul rapporto identità/libertà
discuteremo, quando capiterà, in un’altra occasione. Qui mi interessa
sottolineare l’importanza dell’alterità, che i più vedono come un fattore che
distanza l’uno dagli altri, mentre è proprio l’alterità a incuriosire e a
promuovere l’interessamento per gli altri. E qui mi spingo fino a dire che
senza il riconoscimento dell’alterità non si dà amore. Tanto per incominciare
proviamo ad abolire quelle espressioni: “mio marito”, “mia moglie”, “mio
figlio”. Perché quell’aggettivo possessivo dove l’altro viene visualizzato come
cosa propria? Non è da imputare a questa mentalità abbastanza primitiva tanta
violenza perpetrata sulle donne, ritenute cosa propria, e non persone che
possono muoversi ed esprimersi anche al di fuori del cerchio ristretto in cui
molti uomini le prevedono? E non sono da imputare a questa mentalità
possessiva, che misconosce l’alterità, tutte quelle violenze psicologiche e
fisiche che nei casi estremi conducono al femminicidio? Che dire poi dei figli
che con fatica i genitori vedono come persone “altre” rispetto a loro, e quindi
legittimati a seguire la propria strada, che magari non coincide con quella dei
genitori che avevano ipotizzato per loro. Non è forse questo uno dei fattori
che rende così difficile la comunicazione tra padri, madri e figli? E infine
non è proprio l’alterità a rendere interessante la vita a due. Non è forse il
segreto che l’altro custodisce a promuovere il desiderio di scoprire ciò che
ancora dell’altro non si conosce? Percorrendo questo cammino, la convivenza non
è mai noiosa, ma tale diventa quando uno presume di saper tutto dell’altro,
mentre invece ha semplicemente negato l’alterità dell’altro, il suo segreto, in
cui si costituisce il suo non essere come io penso che sia. Per questo mi vien
da dire che la vita a due è concessa solo a quelle persone che vedono l’altro
come l’artista vede la sua opera. Un’opera non cede il suo segreto che, nel
caso delle persone, sempre si rinnova. Ma per questo occorre riconoscere le
persone con cui si convive come “altro” da Sé, e non come cosa propria
acquisita per sempre.
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