Corrono i
primi giorni del 1910 quando un pittore poco più che ventenne scrive una
lettera dai toni inconsueti. È destinata a un amico di Monaco, città dove lui
stesso ha trascorso un paio di anni per motivi di studio. Risolti i convenevoli
augurando all’amico un felice anno nuovo e scusandosi del ritardo con cui torna
a farsi vivo, il giovane va dritto al nocciolo: “Ora Le parlerò un po' di me e
la prego di essere paziente”. Un preambolo preoccupane, considerato l’ego
smisurato che non di rado anima gli artisti. Difatti, neanche il tempo di
andare a capo, ed ecco seguire un annuncio a dir poco impegnativo: “Questa estate
ho dipinto dei quadri che sono tra i più profondi che siano mai esistiti”.
Bisogna essere megalomani patentati o geni assoluti per esprimersi così
sfrontatamente. O entrambe le cose. Giorgio de Chirico, l’autore della lettera,
appartiene a entrambe le categorie. Da genio megalomane qual è, si vanta senza
pudore dei suoi quadri: ne enfatizza la ridotta dimensione perché la profondità
che lui ha in mente è quella di certe “composizioni gigantesche, con molti
personaggi nudi, che vogliono superare qualcosa, così come li ha dipinti
l’artista più stupido, Michelangelo”. Spiega inoltre di essere giunto a una
simile profondità studiando il pensiero di Friedrich Nietzsche. Decreta anche
con reiterata immodestia di essere l’unico ad aver compreso il messaggio del
filosofo. Non cambierà mai opinione al riguardo. Per tutta la vita non farà che
ripetere: “Nessuno capisce Nietzsche, io sì”. E quasi per contrappasso,
malgrado il talento indiscutibile, il pittore rimarrà lungo
incompreso o capito per il verso
sbagliato o comunque in modi che a lui non piaceranno. A sbrogliare l’intrigata
matassa che lega uno de massimi artisti del XX secolo a Nietzsche e altri
ostici filosofi quali Schopenhauer, giunge oggi la pubblicazione di un denso
saggio di Riccardo Dottori (Giorgio de
Chirico. Immagini metafisiche, edito da La Nave di Teseo) lettura
indispensabile per chi voglia risalire alle origini dell’universo
dechirichiano. Tutto ha inizio con una tela dipinta mentre l’Europa veniva
scossa dai furori delle avanguardie. Si intitola L’enigma di un pomeriggio d’autunno e vi è rappresentava una piazza
con al centro una statua con la testa mozzata e, più a lato, due piccole figure
in tunica. Sullo sfondo, un paio di tende nere fanno da portoni a una
costruzione che potrebbe essere una chiesa o forse un tempietto greco. Accanto
a questo edificio, un muro dietro il quale spunta l’albero di una nave. In
lontananza, un cielo verde e senza nuvole. Ombre lunghe e spettrali fendono la
piazza. Tutto appare silente e immobile, immerso in una malinconia placida e al
tempo stesso sinistra. Il momento e il luogo sembrano ricordarci qualcosa, ma
appena tentiamo di dare una collocazione concreta alla scena ci ritroviamo
spaesati senza capirne bene il motivo. Il quadro – racconterà il pittore – gli
è apparso alla mente in un pomeriggio di autunno del 1909 mentre era seduto su
una panca in piazza Santa Croce a Firenze. Si stava riprendendo da una malattia
intestinale e gli sembrava che il mondo intero e perfino il marmo di edifici e
fontane fosse in uno stato di convalescenza. Fu in questa condizione di torbida
sensibilità che ebbe l’impressione di vedere la piazza per la prima volta e
visualizzò la composizione del dipinto. “Ogni volta che guardo questo quadro –
scrive de Chirico – rivedo questo monumento: il momento tuttavia è un enigma
per me, perché inspiegabile. Amo così chiamare l’opera che risulta un enigma”.
Per noi che non eravamo in piazza Santa Croce quel giorno, scoprire com’è nato
il dipinto ha un curioso effetto. Se da un lato ci sembra di riconoscere il
luogo, dall’altro non possiamo fare a meno di chiederci come mai la severa
figura di Dante venga sostituita da una statua decapitata. Per non parlare
della basilica trasformata in tempietto, o delle tende nere al posto dei
portoni. Ma soprattutto cosa ci fa una nave nel centro di Firenze? Certo
possiamo sempre ipotizzare che l’artista – nato e cresciuto ai margini della
Tessaglia, in una città affacciata su un mare dove ogni onda rievoca i miti
dell’antica Grecia – abbia sovrapposto qualche ricordo d’infanzia alla piazza
com’è in realtà. Non di meno il mistero persiste. (..). E’ un mondo nuovo
quello rappresentato in questi quadri, un mondo senza il quale l’arte e
l’immaginario del Novecento non sarebbero stati gli stessi. L’elenco di chi è in
debito con De Chirico è sterminato, tocca i campi più diversi. Va dal cinema di
Fellini ai rebus della Settimana
enigmistica, dalla pittura di Maritte e Dalì agli slittamenti di senso cui
talvolta ricorrono i pubblicitari. De Chirico ha cambiato il nostro sguardo sul
mondo inventando di fatto il surrealismo. Non era questa la sua intenzione,
però. Considerava infatti il surrealismo un tale fraintendimento della sua arte
da scontrarsi in maniera violenta e insanabile con André Breton, l’uomo che
della rivoluzione surrealista fu il condottiero. In effetti, si spinse molto
più in là del ripudio di chi lo considerava un maestro. Da un certo momento in
poi cominciò a dipingere quadri barocchi e soggetti spiccioli: cavalli al
galoppo su spiagge deserte, nature morte dall’aspetto convenzionale che lui
chiamava “vite silenti”, opere che parevano avere ben poco di enigmatico.
Arrivò perfino all’estremo di falsificare se stesso, realizzando copie retrodatate
dei quadri di gioventù, inquinando il mercato, seminando dubbi, sospetti e
scetticismo tra studiosi e galleristi. Eppure anche il de Chirico falsificato
aveva una sua profondità, i suoi enigmi, e perfino un suo lato capriccioso e
bambinesco. Non va trascurato infatti che, per come la intendeva lui, la
Metafisica era la pittura dei filosofi alla Nietzsche, dei pensatori che
superano la filosofia per scorgere nella mancanza di senso e logica della vita
una fonte di inquietudine più prossima allo stupore del fanciullo che
all’angoscia dell’adulto. Tant’è che per orientarci nel cuore dell’enigma,
nella profondità sbandierata da de Chirico nella sua lettura, non possiamo
sperare in mappa migliore di queste sue parole: “Vivere nel mondo come in un
grande museo di stranezze, pieno di giocattoli curiosi e variopinti che cambiano
aspetto e che talvolta, come dei bambini, noi rompiamo per vedere com’erano
fatti dentro. E delusi ci accorgiamo che erano vuoti”.
Tommaso Pineto – Cultura – Venerdì
di La Repubblica – 30 novembre 2018 -
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