Contro tutti
gli anatroccoli e le sirenette e le “fini così liete” che avevano il
travolgente successo del conterraneo e mai amato Hans Christian Andersen, Seren
Kierkegaard scrisse una favola dura, speciale, per una infanzia più
consapevole, nella quale spiegava ai bambini come nasce l’angoscia. Si intitola
L’avventura del giglio selvatico (Quodlibet…) ed è stata scovata e tradotta da
Gianni Garrera, esperto del filosofo, all’interno dei discorsi religiosi di
Kierkegaard. Racconta la vita di un giglio che abita nei pressi di un ruscello,
accanto ad altri fiorellini comuni e alle ortiche. Fiorisce ed è felice di sé,
finché non incontra un uccellino di passaggio che comincia a tentarlo: gli
sottolinea che la compagnia di cui si circonda non è alla sua altezza, gli
parla di campi dove fioriscono gigli reali, e non selvatici: “Quanto più
ascoltava l’uccello tanto più si angosciava”, scrive Kierkegaard, cioè
l’uccellino gli instilla l’ansia che così come è lui non va bene, che sta
vivendo nell’ombra e non è nessuno. Una mattina attuano il loro piano:
l’uccellino con il becco sradica il giglio (e qui sentiamo una fitta dolorosa,
perché sappiamo fi da bambini cosa succede a un fiore sradicato) e lo mette
sotto la sua ala; ma durante la traversata il giglio si secca e muore. E’ una
favola radicale, una rilettura della storia di Adamo ed Eva, in cui ritroviamo
i cardini dell’esistenzialismo di Kierkegaard, dell’angoscia che nasce come
desiderio dello sconosciuto, che attrae e mette paura (le migliori favole per
l’infanzia erano secondo lui quelle macabre con fantasmi o i morti che
ritornano), e dell’obbedienza all’armonia del mondo. Kierkegaard metaforizza
una delle angosce forti di quando si è bambini, che prende corpo
dall’omologazione e dal confronto con gli altri, e insieme allerta i piccoli
lettori sulla possibilità di incontrare un amico che dica: “hai solo questo
giocattolo?”, o che denigri continuamente, come fa l’uccellino della favola, un
chiacchierone, cattivo, malizioso, nevrotico, che prova piacere nell’insinuare
l’insoddisfazione. Le splendide illustrazioni di un artista come Matteo Fato,
tratteggiate a matita, sono delle aumentazioni di senso, come il monocromo
finale nero esemplificazione della morte del giglio, per una parabola che ci
minaccia ogni giorno: l’infelicità produce infelicità e il mondo è pieno di
gigli scontentissimi che necessitano di protesi esterne per campare perché
l’esistenza è di una desolazione immane e la noia è dappertutto. Foscolo
sosteneva che la giovinezza deve fiorire e portare frutti: perché accada
bisogna essere coerenti, fedeli; all’inverso l’angoscia del giglio è questa non
accettazione della realtà profonda di sé e delle cose, è lo smarrire se stessi,
è perdere la consapevolezza del proprio splendere. L’essere è un fiorire, e
questo significa diventare quello che siamo: ma noi quasi mai diventiamo quello
che siamo, diventiamo casualmente, seguendo la banderuola della nostra angoscia
e della nostra irrequietezza.
Sebastiano
Triulzi – Cultura – Il Venerdì di La Repubblica – 7 dicembre 2018 -
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