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mercoledì 12 dicembre 2018

Lo Sapevate Che: Kierkegaard e il giglio che visse infelice e molto scontento...


Contro tutti gli anatroccoli e le sirenette e le “fini così liete” che avevano il travolgente successo del conterraneo e mai amato Hans Christian Andersen, Seren Kierkegaard scrisse una favola dura, speciale, per una infanzia più consapevole, nella quale spiegava ai bambini come nasce l’angoscia. Si intitola L’avventura del giglio selvatico (Quodlibet…) ed è stata scovata e tradotta da Gianni Garrera, esperto del filosofo, all’interno dei discorsi religiosi di Kierkegaard. Racconta la vita di un giglio che abita nei pressi di un ruscello, accanto ad altri fiorellini comuni e alle ortiche. Fiorisce ed è felice di sé, finché non incontra un uccellino di passaggio che comincia a tentarlo: gli sottolinea che la compagnia di cui si circonda non è alla sua altezza, gli parla di campi dove fioriscono gigli reali, e non selvatici: “Quanto più ascoltava l’uccello tanto più si angosciava”, scrive Kierkegaard, cioè l’uccellino gli instilla l’ansia che così come è lui non va bene, che sta vivendo nell’ombra e non è nessuno. Una mattina attuano il loro piano: l’uccellino con il becco sradica il giglio (e qui sentiamo una fitta dolorosa, perché sappiamo fi da bambini cosa succede a un fiore sradicato) e lo mette sotto la sua ala; ma durante la traversata il giglio si secca e muore. E’ una favola radicale, una rilettura della storia di Adamo ed Eva, in cui ritroviamo i cardini dell’esistenzialismo di Kierkegaard, dell’angoscia che nasce come desiderio dello sconosciuto, che attrae e mette paura (le migliori favole per l’infanzia erano secondo lui quelle macabre con fantasmi o i morti che ritornano), e dell’obbedienza all’armonia del mondo. Kierkegaard metaforizza una delle angosce forti di quando si è bambini, che prende corpo dall’omologazione e dal confronto con gli altri, e insieme allerta i piccoli lettori sulla possibilità di incontrare un amico che dica: “hai solo questo giocattolo?”, o che denigri continuamente, come fa l’uccellino della favola, un chiacchierone, cattivo, malizioso, nevrotico, che prova piacere nell’insinuare l’insoddisfazione. Le splendide illustrazioni di un artista come Matteo Fato, tratteggiate a matita, sono delle aumentazioni di senso, come il monocromo finale nero esemplificazione della morte del giglio, per una parabola che ci minaccia ogni giorno: l’infelicità produce infelicità e il mondo è pieno di gigli scontentissimi che necessitano di protesi esterne per campare perché l’esistenza è di una desolazione immane e la noia è dappertutto. Foscolo sosteneva che la giovinezza deve fiorire e portare frutti: perché accada bisogna essere coerenti, fedeli; all’inverso l’angoscia del giglio è questa non accettazione della realtà profonda di sé e delle cose, è lo smarrire se stessi, è perdere la consapevolezza del proprio splendere. L’essere è un fiorire, e questo significa diventare quello che siamo: ma noi quasi mai diventiamo quello che siamo, diventiamo casualmente, seguendo la banderuola della nostra angoscia e della nostra irrequietezza.
Sebastiano Triulzi – Cultura – Il Venerdì di La Repubblica – 7 dicembre 2018 -

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