Il Tedesco Johannes zum Gutenberg intorno al 1440 fa i
suoi primi esperimenti con i caratteri mobili per la stampa mentre vive a
Strasburgo. Comincia a usare la sua tipografia regolarmente nel 1450 a Magonza.
L’americano Mark Zuckerberg fa i suoi primi esperimenti con un social media
mentre vive nel pensionato universitario di Harvard nei primi mesi del 2004.
Nello stesso anno lascia l’università, si trasferisce a Palo Alto, nella
Silicon Valley californiana, e inizia la costruzione di quello che diventerà
Facebook. Che cosa unisce questi due personaggi e questi due eventi? Di sicuro
la difficoltà che abbiamo a misurare l’impatto delle rivoluzioni tecnologiche,
e le sorprese che queste ci riservano. L’accesso alla conoscenza, la facilità
di comunicare le proprie idee o le proprie scoperte, grazie alla diffusione dei
libri o grazie a Internet, ci rende migliori? A mezzo millennio di distanza
siamo indulgenti con Gutenberg. La scienza medica, che salva tante vite umane,
fece progressi più veloci quando le scoperte circolarono grazie ai libri. Però
senza la stampa, veicolo della Riforma protestante, forse non ci sarebbero
state quelle guerre di religione che insanguinarono l’Europa per molti decenni,
orrendi conflitti fratricidi paragonabili alle violenze tra musulmani sunniti e
sciiti. La stampa che ci fa uscire da millenni di cultura orale, emancipa tanti
individui dall’ignoranza o dalla dittatura culturale delle caste ecclesiali;
poi li rende malleabili ad altri tipi di manipolazioni. È una delle sorprese
della storia, che si ripete con i social media contemporanei. La confusione in
cui si troviamo oggi non è nuova nel tempo. Risalire a quel precedente di
cinque secoli fa ci dimostra che non tutto è nuovo sotto il sole: il progresso
e il regresso sono avvinghiati tra loro. Un esempio molto più recente, anno
1972: lo storico viaggio di Richard Nixon a Pechino per incontrare Mao Zedong
fu interpretato solo in chiave geopolitica, come inizio di un disgelo sullo
sfondo della guerra fredda Usa-Urss e del conflitto in Vietnam. Nessuno, né in
America né in Cina, capì che poteva segnare l’ingresso della Cina nell’economia
globale, una modernizzazione formidabile, col risultato di generare il più
terribile sfidante dell’egemonia Usa. Altro episodio all’origine di tanti
fraintendimenti: il 1979, anno-zero dell’islamismo contemporaneo, quando si
sommano la rivoluzione Khomeinista in Iran, la svolta oscurantista in Arabia
saudita, l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’attenzione occidentale si
concentrò sulla caduta dello Scià di Persia in chiave positiva: come
liberazione di una nazione emergente dall’asservimento agli interessi
occidentali. Il mio viaggio in Iran quest’anno mi ha consentito di misurare
quanto quella narrazione sia ripudiata dagli stessi iraniani: molto più critici
e insofferenti di noi verso il governo dei mullah. È così che ho costruito il
mio viaggio tra le grandi svolte del passato che hanno disegnato il mondo in
cui viviamo. A cui dedico il nuovo libro Quando
inizia la nostra storia. Cerco di avere con la storia un rapporto terapeutico,
per così dire. In italiano il verbo comprendere, nella sua origine, significa
includere. Per capire bisogna riuscire ad abbracciare anche punti di vista
diversi. Per trovare un senso e una logica in questo mondo così complicato la
storia aiuta. Può sdrammatizzare, ricordandoci che altre epoche sembrarono
altrettanto caotiche, assurde, indecifrabili. Vennero interpretate in modi che
oggi abbiamo dovuto ribaltare. A questo lavoro di rilettura del passato io
affido una speranza: rimettendo in discussione stereotipi, luoghi comuni,
semplificazioni e pregiudizi, forse ritroveremo il filo di un dialogo civile
con chi non la pensa come noi.
Federico Rampini – Donna di La Repubblica – 17 novembre 2018 -
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