Qualche Settimana Fa, in coda alle casse del supermercato,
ho incontrato la maestra di mio figlio. Ho represso l’impulso di scattare
sull’attenti, retaggio di un’atavica soggezione all’autorità scolastica, e l’ho
salutata con ossequiosa deferenza perché il mantra “la maestra ha sempre
ragione” ha radici inestirpabili. Lei, ben più disinvolta di me, mi ha sorriso
e mi ha raccontato uno di quegli episodi su cui i figli stendono veli omertosi,
ma che gettano ombre sinistre su reali o presunte nefandezze familiari e sulla
visione che l’ingrata prole ha di noi derelitti genitori. “La mia mamma si
sveglia tutte le mattine alle quattro”, avrebbe detto in classe l’ottenne
terzogenito, consapevole che tale affermazione, peraltro veritiera, genera
sempre una certa empatica commiserazione nell’interlocutore. “Però lei in
realtà non è che lavori veramente”, avrebbe aggiunto subito dopo, forse per
smorzare o annullare l’impatto doloroso di una quotidiana sveglia antelucana.
Ho riso insieme alla maestra, ho pagato, insacchettato la spesa e, da allora,
non ho più smesso di pesare alle parole di mio figlio, domandandomi se devo
considerarle una vittoria o una sconfitta. Quattro anni fa ho abbandonato un
lavoro dipendente e un contratto a tempo indeterminato, anche perché stavo
sempre nel posto sbagliato: quando trascorrevo troppe ore in ufficio mi sentivo
in colpa verso i miei cari e, viceversa, se mi dedicavo eccessivamente alla
famiglia mi autoaccusavo di negligenza professionale. Ero dilaniata e infelice
perché, evidentemente, non sono capace di essere contemporaneamente madre di
tre figli e giornalista a tempo pieno in una redazione. Ho scelto il
precariato, la partita Iva, il lato oscuro del mondo del lavoro, scoprendo che
ci sto comodissima, malgrado l’incertezza sia diventata la mia cifra
stilistica. Mi sono lasciata alle spalle, senza rimpianti, l’open space, i
colleghi, le corse in bicicletta all’ora di punta, gli affanni, gli incastri,
il tarlo dell’assenza. Mi sveglio quando gli altri dormono, esco quando è
ancora notte, però a un certo punto della mattina torno a casa e ci resto. In
caso di sconforto, successo, domande esistenziali e peregrine, dubbi, ripassi,
saluti, rassicurazioni, l’adolescente malmostoso, il ragazzetto delle medie con
lo sguardo pazzo e il piccolo che chiamiamo Sneddu mi trovano lì, dietro una
porta che non è mai chiusa a chiave. Leggo, scrivo, studio, lavoro, mi dedico a
un collage di occupazioni varie, in una stanza a portata di voce. Quindi forse
la percezione di mio figlio sulla mia presunta nullafacenza è positiva, perché
scevra da quel fardello di smarrimento e fatica cui spesso un lavoro
tradizionale a tempo pieno si accompagna. Tuttavia, io lavoro. In certi casi
anche molto. E per questo ricevo un compenso fondamentale al sostentamento
familiare tanto quanto quello del pater
famlias che, con una professione ben più tradizionale della mia e per
giunta all’estero, è percepito come lavoratore a pieno titolo. Mi viene il
dubbio che le mie attività bislacche non veicolino quel messaggio di
indipendenza, realizzazione e emancipazione femminile che vorrei arrivasse
forte e chiaro a quei tre giovani esemplari maschi. E se un giorno si
aspetteranno dalle loro compagne una stanzialità domestica, talvolta incompatibile
con professioni appaganti e solide, io avrò fallito. La verità è che ogni
modello si presta a interpretazioni e ogni esempio si specchia nel suo esempio.
Facciamo un sacco di errori con le migliori intenzioni, e le impronte che
lasceremo avranno forme diverse dai nostri piedi. Ma ci somiglieranno comunque
e qualche volta, sotto la luce giusta, forse brilleranno.
Claudia de
Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica -31 marzo 2018 -
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