Passo
spesso in rue de Caumartin, è nel Nono arrondissement parigino, vicino a casa. Al numero
nove, centottanta anni fa, nel 1838, Stendhal scrisse, o dettò in cinquantatré
giorni, “La Certosa di Parma”. Pubblicato l’anno dopo il romanzo non ebbe
subito il successo riservatogli poi dalla storia della letteratura. Raccolse
comunque più consensi dei precedenti romanzi stendhaliani che ne ricevettero in
verità assai pochi, e dovettero aspettare alcuni decenni per essere apprezzata.
La Certosa poté contare per il suo lancio su una critica entusiasta di ben
settantadue pagine di Balzac. In una lettera all’autore Balzac lo rimproverò
tuttavia per avere indicato la località della sua Certosa. Lui avrebbe
preferito un titolo asciutto: La Certosa. Non che giudicasse Parma indegna o
inadatta, ma pensava che fosse meglio non imporre un luogo preciso. La Certosa
doveva essere immaginata in un’Italia dove il lettore poteva far correre la
fantasia. In realtà, allora, a Parma non c’era neanche una Certosa. Quando passo in rue de Caumartin, in
questi mesi celebro da solo, col pensiero, il centottantesimo compleanno del
romanzo che ha impegnato la mia immaginazione di adolescente a Parma. E che ha
in parte ispirato il mio comportamento d’allora, non sempre nel buon senso. Le
fughe di Fabrizio non erano da imitare nella realtà. Adesso, passando in rue de
Caumartin mi capita di immaginare la stanza in cui Stendhal si isolò per quasi
due mesi, dicendo ad amici e conoscenti che “andava a caccia”. È quel che si
racconta in alcune biografie, Stendhal non avrebbe scritto di suo pugno il
romanzo ma l’avrebbe dettato a una segretaria. Nella sua Parma la piccola corte
del principe Ranuccio Ernesto IV è una trasfigurazione romanzesca dell’Italia della Restaurazione
sulla quale si sovrappone la trama di una vicenda rinascimentale, simile a
quelle che Stendhal cercava nelle biblioteche che per le sue “Cronache
italiane”. La trama della Certosa si ispira in più punti alla vita di
Alessandro Farnese, che prima di diventare papa Paolo III nella sua gioventù
libertina finì prigioniero a Castel Sant’Angelo, che nel romanzo diventa probabilmente
l’inesistente Certosa di Parma. La Parma di Stendhal è inoltre storicamente
identificabile come Modena. La
Questione
non è più dibattuta. Farebbe sorridere sollevarla adesso. Mi spinge a scriverne
la necessità, più che il desiderio, di difendere la visione giovanile della mia
città che passava attraverso il filtro della Parma apocrifa di Stendhal. Da
ragazzo, dopo la lettura di Stendhal, la mia città era animata da Fabrizio,
dalla Sanseverina, da Clelia, dal conte Mosca. Pensavo che l’attuale Cittadella
fosse la Certosa dove un tempo c’era la torre in cui era rinchiuso Fabrizio;
sempre là doveva esserci la finestra che inquadrava il volto di Clelia; il
vecchio tribunale era per me la dimora ufficiale del conte Mosca; riconoscevo
in una chiesa sconsacrata e sempre chiusa quella in cui Fabrizio diventato
monsignore predicava la quaresima: e in tanti palazzi immaginavo la Sanseverina
che si muoveva sensuale, generosa e intrigante. Stendhal aveva frequentato poco la città che aveva popolato per me
di fantasmi: durante i rapidi passaggi ammirava soprattutto il Correggio (la
cui pittura poteva essere affiancata alla musica di Cimarosa e alla poesia, al
teatro di Shakespeare) e poi andava a trovare gli amici nelle belle ville
posate sulle colline sulla vicina provincia reggiana. Il consiglio di Balzac
poteva apparire non tanto avventato. Se i miei fantasmi giovanili non sono
spariti del tutto lo devo a Luigi Foscolo Benedetto (“La Parma di Stendhal”).
Dopo aver ricostruito la genesi del romanzo Benedetto scrive nel suo
capolavoro: “Parma aveva tra l’altro, il gran pregio di non essergli, come
città materiale, notissima. Conosceva di essa quel tanto che gli bastava per
soggiornarvi volentieri colla fantasia…Ma non era quella città, né per lui né
per il pubblico che avrebbe letto il suo libro, una realtà così nota da
intralciare e vincolare il suo estro. Quella scelta gli permetteva di mescolare
tra loro liberamente il reale e il fantastico. Era quella, come già sappiamo,
una delle sue condizioni per creare con gioia”. Così ho celebrato i centottanta
anni della Certosa di Parma.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 15 aprile 2018
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