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martedì 24 aprile 2018

Lo Sapevate Che: Joanne, il basket e la chiusura degli USA...

Prendete Una Donna che guadagni 700mila dollari l’anno. Non sarà difficile, perché non ce ne son molte. Prendete, per esempio, Joanne Boyle, atletica signora di 54 anni, che improvvisamente decide di lasciare il lavoro che le dà quella somma principesca per dedicarsi completamente alla figlia di sei anni, Ngory. Raccontata così e dimenticando per un momento quella montagna di dollari, sembra l’ennesima versione del dilemma che affligge le donne, prese nella scelta fra la carriera e i figli. Ma ogni similitudine fra Joanne e la vicina della porta accanto finisce se si osserva da vicino il suo caso. Quei 700mila dollari erano il suo ingaggio come allenatrice della squadra di basket femminile della Virginia Unversity, una delle migliori del campionato universitario. Il suo palmarès, la sua storia prima di giocatrice e poi il coach, giustificava uno stipendio così succulento, avendo condotto le squadre in stagioni vittoriose. Inoltre, a 30 anni, quando ancora giocava come professionista, aveva sconfitto un’emorragia cerebrale. La sua carriera era destinata a traguardi – e ingaggi – ancora più principeschi, se Joanne quattro anni prima non avesse deciso di fare una vacanza in Africa, su invito di una delle sue giocatrici originaria di quel continente, che aveva insistito perché lei, donna bianca, andasse a conoscerlo. In Senegal, aveva voluto visitare un orfanotrofio a Tambacounda. L’incontro con quella realtà l’aveva sconvolta. Per lei, cresciuta in California, studentessa poi giocatrice e allenatrice a Beverly Hill e in Virginia, la vista di quei bambini accatastati l’uno sull’altro, nutriti con una scodella di riso – raramente due – al giorno, coperti di parassiti e di piaghe, era stato come affacciarsi sull’abisso. Si era innamorata di una bambina di due anni, Ngory. Aveva ottenuto per lei un visto turistico e se l’era portata con sé in Virginia, fingendo di dimenticare che un documento simile vale 90 giorni, al termine dei quali la persona deve lasciare gli Usa o diventare clandestina. Aveva cominciato le pratiche per trasformare quella bambina da turista in rifugiata, per poterla poi adottare, ma alla fine del 2017 la mano del servizio immigrazione l’aveva raggiunta. I tempi della tolleranza, degli occhi chiusi, del permissivismo erano finiti. Ngory doveva essere rispedita in Senegal, nell’orfanotrofio di Tambacounda, e cominciare l’iter per l’immigrazione, che richiede anni. E’ stato allora che Joanne Boyle ha deciso. Ha lasciato la propria vita, il basket. L’Università della Virginia, la bella casa nel campus di Charlottesville. I 700mila dollari all’anno. E si è trasferita in Senegal, dove all’inizio di quest’anno ha presentato regolare domanda al consolato americano di Dakar, la capitale, preparandosi all’arrivo del permesso di immigrazione per Ngoty in un appartamento in affitto. Non può fare altro che attendere, perché lei non è la madre adottiva, è un’americana qualsiasi per la bambina, e non può ricorrere al ricongiungimento familiare. I funzionari l’hanno avvertita che, con la presidenza Trump, i visti sono diventati durissimi da ottenere, e la lista d’attesa è chilometrica. Per passare il tempo, si diverte a insegnare pallacanestro alle ragazzine senegalesi, a finanziare squadrette, sapendo che lei e la bambina potrebbero invecchiare e crescere insieme prima che l’America schiuda la porta. “Ci sono alunne promettenti”, ha detto, “e se un giorno diventassero davvero brave, qualche college americano potrebbe sponsorizzarle, chiamandole negli Usa”. Perché il pallone è, notoriamente, molto più elastico del cuore degli uomini.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 14 aprile 2018 -

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