Era Un Sabato mattina e rovistavo nell’armadio alla
ricerca di una vecchia borsa blu dimenticata per anni in quegli anfratti bui e
divenuta, per un guizzo mondano e nevrotico, irrinunciabile più dell’aria
stessa, Mentre frugavo esasperata, pronta a mettere a soqquadro il nostro
appartamento al primo piano e, se necessario, l’intero condominio, la mia
spasmodica ricerca fu distratta dall’angolo di una vecchia fotografia che
spuntava da un cassetto, di quelli dove si accumulano e si dimenticano cimeli,
vecchi documenti, tessere elettorali e cartacce. La tirai fuori e ci trova il
ritratto di due ragazzette felici. Una aveva occhi azzurri stretti per il gran
ridere e indossava un poncho fricchettone. L’altra aveva chiome ipertrofiche n
cui aveva intrecciato rametti di mimosa, e il simbolo della pace disegnato su
una guancia che ancora conservava una labile traccia paffuta dell’infanzia. Era
il Carnevale dei nostri 15 anni e la mia amica Erika ed io ci eravamo
travestite da hippie. Intorno a me sbiadirono l’armadio dalle ante spalancate,
i vestiti appesi, lo specchio dietro la porta e rimasero dolo quelle due buffe
adolescenti, vivide nel ricordo ancor più che in quell’immagine scolorita.
Negli anni delle superiori fummo compagne di banco, di viaggi, di avventure.
Insieme scoprimmo le lingue morte, la passione politica, il brivido di andare a
un concerto o a una festa. Insieme furono la prima manifestazione, la prima
assemblea di istituto, la prima fuga clandestina da scuola. A lei raccontai la
mia prima volta e sulla sua spalla piansi la fine di un amore che allora
credevo unico e irripetibile. Tenendoci per mano ci tuffammo dentro la vta e,
l’una accanto all’altra, in quei cinque anni di scuola, ci facemmo altro da noi
stesse e diventammo donne, o almeno una loro acerba ma compiuta
approssimazione. “Ehi, quanto disagio vedo qui! Cosa fai lì seduta per terra
come una disperata, mamma?”. Era mio figlio maggiore, appena rientrato da
scuola, che irrompeva nei miei silenzi con l’indelicatezza della sua età
proterva. “Sono qui con Emilio, un mio compagno di classe. Può fermarsi a
pranzo? Abbiamo fame belva. Dobbiamo fare veloce perché dopo andiamo in
manifestazione”, proseguì frettoloso e distratto, senza aspettare la mia
risposta. “Perché mi guardi così? Cosa c’è? Sono sporco in faccia?”, domandò.
“No, no…è che ho trovato questa fotografia…Siamo Erika e io…”. Si chinò a
osservare. “No, vabbè. Quanto imbarazzo. Perché mi fai vedere’ste robe ché poi
resto traumatizzato per sempre? Guai a te se la fai vedere a Emilio. Nascondila
subito”. E mi resi conto in quel momento che lui, oggi, è esattamente dov’ero o
allora. Mio figlio, dice: “Scialla, madre”, controlla i voti sul registro elettronico
e di notte chatta con una ragazzina afroamericana in Tennessee, è proprio lì,
in piedi su quel trampolino da cui si gode una vista fantastica, pronto a
lanciarsi insieme a un Emilio. In questi anni si plasmerà la mia coscienza.
Sceglierà gli amici con cui plasmerà la sua coscienza. Sceglierà gli amici con
cui con cui condividerà i prossimi decenni. Avrà brividi, sogni, ardori,
delusioni. Perderà l’incanto e acquisterà consapevolezza. Sperimenterà
l’indipendenza e il libero arbitrio. Vedrà film e leggerà libri. Si avventurerà
su terrei vergini e meravigliosi. Sceglierà strade divergenti dalle nostre,
perché la costruzione dell’identità esige sempre una fuga. Costruirà se stesso
e si ritroverà più grande, più solido, più scuro, altro da noi. <mentre io
lo guardo distratta e lui mi dice compassionevole: “Quanto disagio madre”, si
consuma l’irripetibile e grandioso rito del primo volo. Ho perso la mia vecchia
borsa blu, ma mi sono conquistata il privilegio di un posto in prima fila,
seppure nelle retrovie.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 14
aprile 2018-
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