Arrivano Finalmente I
Piatti ordinati, e
subito l’occhio corre a quello del vicino. Ammettiamolo. Quel menù approvato
dopo una lunga dolorosa consultazione (io però sono un avventore nevrastenico,
sempre il primo a decidere) diventa istantaneamente noioso, e il sospetto che
la scelta di altri sia quella giusta prenda forma. Attorno alla tavola si
scatena la sarabanda dell’assaggio reciproco, con forchette e cucchiai e piatti
che volano e si incrociano, rischiando l’inevitabile calice di rosso
rovesciato. Tutti mentono, per cortesia: ottimo il tuo, vuoi provare il mi?
Nessuno osa dire che il manicaretto ordinato dall’amica fa schifo. Nella mia
famiglia il rito dello scambio fu introdotto da parenti romagnoli, che noi dileggiavamo,
fedeli al “ciascuno il suo” (“Guarda nel tuo piatto!”), ci intimava la mamma).
Ora si è diffuso come un virus influenzale in febbraio, e sta diventando norma,
abilmente sfruttata da ristoratori attenti alle credenze. Ha già un nome, food sharing, spartire il cibo: un
rituale, pietanza, dessert) , una liturgia. In un ristorante d New York oggi
molto in voga, camerieri e cameriere, con quell’aria un po' imperiosa che
assumono nei locali più costosi, servono a tavola ammonendo gli avventori:
“Questo è da dividere”. Zitto e assaggia. Ma non tutti approvano, e si apre un
ampio dibattito fra monogami e poligami alimentari. Fatto sta che viene
rivoluzionata la scansione del pranzo in tre portate (primo o antipasto,
pietanza, dessert) introdotta in Francia dai nobili russi nel ‘700, e ancora
oggi chiamata nei libri di storia della ristorazione service à la russe. Ovviamente il food sharing, che richiama la polenta contadina rovesciata sul
tavolo con il pezzo di salsiccia in mezzo occhieggiata avidamente, produce
complessi problemi psicologici e social. Chi vorrebbe ordinare caviale è
trattenuto dal pensiero di dover dividere quei preziosi pallini con l’amico che
ha chiesto formaggi. Un pezzo di groviera da 50 centesimi contro un blinis al
caviale da 29 euro? Un momento. Vediamo. Il mangiatore rapido dovrà frenare le
mandibole e aspettare il ruminante, per non creare il sospetto di voler finire
in fretta e dunque di non volere share.
Il celiaco e i sofferenti di allergie alimentari sarà svantaggiato, non potendo
pizzicare nei piatti degli altri, mentre gli altri potranno pescare
tranquillamente nella sua. E, come nelle antiche civiltà contadine, resterà
sempre il nodo della “creanza”, della buona educazione, con quell’ultimo
gamberetto, quell’ultima fettina, lasciati soli nel piatto centrale guardati da
avventori che si domandano chi oserà spolverarlo. Il sentimento di essere stati
fregati al momento del conto si insinua: si può davvero dividere in part uguali
un totale composto dalla mia insalata e dalla tua aragosta? Ho preso abbastanza
dalla mangiatoia per giustificare la mia quota! I teologi della nuova religione
del cibo condiviso predicano che l’orgia di reciproci assaggini permette di
giudicare meglio la cucina. Il palato si annoia, mentre si sveglia e si eccita
gustando sapori diversi. Un principio forse neurologicamente corretto ma che
apre inquietanti interrogativi sentimentali: scusi, posso assaggiare sua
moglie? Permette una forchettata dal suo fidanzato, signorina? La tendenza, ci
dicono da New York, è ormai irreversibile, e l’egoista che si isola attorno
alla propria pietanza sarà presto esiliato nei fast food. Tutto è social e sharing, le bici e le auto, le
confidenze in Rete e i video: il cibo non poteva sfuggire. Si va al ristorante
per pregare insieme gli dei della cucina, come un tempo in chiesa- Dacci oggi
il “suo” pane quotidiano, amen.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Dona di La Repubblica – 7
aprile 2018 -
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