Perché Gli Amici Dell’Adolescenza Restano Speciali
Avevo 15 anni, andavo al ginnasio, e il mio insegnante
di chitarra e il mio insegnante, tal
Peppo, tenebroso e poco più grande di me, mi chiese: “Ma tu, la sera,
quando esci con i tuoi amici, che fai?”.
La domanda, nelle intenzioni casuale e innocente, mi
gettò nel più cupo sconforto. Non avevo amici bensì solo compagni di classe,
per lo più nerd e secchioni, come me. Passavo le mie serate a giocare a
Machiavelli con mia madre sul tappeto in sala, a studiare l’aoristo greco o a
scrivere dei miei tormenti adolescenziali e del mio spasmodico desiderio di
trovare il principe azzurro, sulle pagine di un diario dalla copertina rosa. La
prospettiva di uscire la sera era per me remota al pari di una gita in deltaplano,
dello smalto sulle unghie e di un dieci nella versione di Latino.
Fortunatamente,
a 15 anni, le prospettive cambiano come le stagioni e, esattamente un anno dopo
quell’improvvida domanda, ogni sabato sera avevo appuntamento alle 19 in punto
nel mezzanino della metropolitana milanese, fermata Loreto, per uscire con i
miei amici. Lo so, ci sono luoghi più accoglienti e ameni del sottosuolo urbano
per muovere i primi passi di una mondanità acerba ma promettente. Tuttavia a me
quel rito settimanale accanto alle obliteratrici, sotto la luce ostile di un
neon, sembrava la più sublime e ambita delle consuetudini. Loro erano compagni
di scuola ma non di classe, fricchettoni ma non disperati, intellettuali ma non
soporiferi, impegnati ma non fanatici, gaudenti ma non stoltamente edonisti:
perfetti ai miei occhi. E, soprattutto, erano i miei amici, quelli che mi
avevano sollevato dal pantano in cui sguazzavo mal mostosa e derelitta, tra una
partita di Machiavelli e le confessioni al diario rosa, per condurmi nel dorato
mondo di una socialità adulta.
Inspiegabilmente
fedeli a quello squallido mezzanino, ci trovammo lì per anni, sempre alla
stessa ora, in cinque, dieci o venticinque a seconda dei sabati, dei programmi,
del tempo fuori, dei fidanzati che si aggiungevano o si perdevano per strada.
Si
cresce anche così: vedendo gente, facendo cose, incontrandosi in Piazzale
Loreto, scegliendosi e riconoscendosi tra simili, coltivando un senso di
appartenenza che regala radici, identità ed equilibrio.
Ci
somigliamo tutti parecchio, a quei nastri di partenza, quando trascorrevamo
notti a parlare fitto di noi e del futuro, quando andavamo al cinema o a una
festa, quando alzavamo il gomito, quando i nostri genitori ci venivano a
prendere in macchina, sbadigliando e controvoglia, alla fine di un concerto e
noi, ingrati, li accoglievamo con uno sbuffo.
Siamo
diventati grandi, abbiamo cambiato scuole, case, città, vite.
Ci
siamo persi, inseguiti, ritrovati, riuniti per matrimoni, compleanni rotondi,
per conoscere un bambino nuovo, per salutare qualcuno che nn c’è più. Ci siamo
spesso sfilacciati, talvolta ricomposti.
Qualche
settimana fa – era un sabato sera, come allora, anche se non c’erano le
obliteratrici –ci siamo ritrovati perché uno di noi partiva per un lungo
viaggio e voleva salutare tutti quanti o forse voleva sentirsi a casa, prima di
lasciarla.
Sono
passati quasi trent’anni. Il mezzanino della stazione Loreto della
metropolitana è rimasto identico. Noi no, Qualcuno è più felice e sereno,
qualcuno ha perso i capelli, qualcuno è più magro o più grasso, qualcuno è
realizzato, qualcuno è inciampato e si è rialzato. Qualcuno ha fatto carriera, qualcuno no,
Qualcuno ha avuto dei bambini, qualcuno
ha un cane, un gatto o un camper, Qualcuno è inquieto e vorrebbe scappare, come
allora. Siamo gradi, ormai. Siamo simili a quelle madri e qei padri all’uscita
del concerto, nascosti in macchina, perché già in pigiama. Eppure io ho ancora
bisogno di loro, di quegli amici, che sono le mie radici, la mia storia, il mio
inizio. Sono uno dei motivi per cui, nonostante tutto, non voglio andarmene da
qui, la misura del mio cammino, lo specchio in cui riconoscermi, il filo che
tiene tutto insieme.
elasti@repubblica.it – Donna di
Repubblica – 01-06-13
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