La peggiore tragedia dell’Italia repubblicana (quasi
2000 vittime) sembrò un evento naturale. Ma non fu così
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo
d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto
qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era
grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia
di creature umane che non potevano difendersi”. Così scriveva sul Corriere
della Sera il 10 ottobre 1963, un giorno dopo la
tragedia, Dino Buzzati.
La metafora è tanto efficace quanto cruda: alle
22:39 del 9 ottobre di 55 anni fa, quasi 270 milioni di metri cubi
di roccia si staccarono dal monte Toc e, a una
velocità di oltre 100 km/h, caddero nell’invaso creato dalla diga
del Vajont, in Friuli-Venezia-Giulia. Provocando un’esondazione terrificante
che, sviluppatasi in 3 direzioni, travolse praticamente ogni cosa. Le
vittime furono 1917, spazzate via dalla furia dell’acqua ma anche dello
spostamento d’aria, simile a quello di un’enorme bomba. Il paese più colpito
fu Longarone, giù nella piana del Piave, già in
territorio veneto: solo lì 1458 persone persero la vita.
Le frane precedenti e la preoccupazione della popolazione
I timori della popolazione locale crebbero così
ulteriormente. L’etimologia del nome “Toc”, quello del monte, viene da “patoc”,
che nel dialetto locale vuol dire proprio “marcio, avariato”. Secoli
di saggezza popolare sembravano però solo sciocca
superstizione di fronte alle meraviglie della tecnica e dell’ingegneria del
miracolo economico italiano: la diga fu terminata proprio nel 1960 (ma
il ‘problema’ nella tragedia non fu tanto la diga, che resse, quanto l’errato e
sottostimato calcolo dei rischi idrogeologici).
Gli allarmi inascoltati di Tina Merlin
Una persona in particolare, la giornalista
dell’Unità Tina Merlin, scrisse prima delle tragedia diversi
articoli per lanciare l’allarme sul rischio di costruire una
diga in una zona franosa. La sua incessante attività le costò
addirittura una causa giudiziaria per “diffusione
di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, da cui
fu assolta.
Anche alcuni dei suoi illustri colleghi, su
tutti Indro Montanelli e lo stesso Buzzati, la attaccarono
personalmente, accusandola di speculazione politica: il Pci,
partito/editore del giornale in cui lavorava Merlin, voleva la
nazionalizzazione delle dighe. Lo stesso Buzzati, nel celeberrimo articolo
citato all’inizio di questo nostro ricordo, dopo aver spiegato la meccanica
della tragedia con la metafora tanto semplice quanto terribile del
sasso, del bicchiere con l’acqua e della tovaglia, sulle cause scrisse
poi con granitica certezza che “non è che si sia rotto il bicchiere
quindi non si può, come nel caso del Gleno (il cedimento di una diga nel
Bergamasco nel 1923 che fece oltre 350 vittime, ndr) dare della
bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte,
testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano”.
I processi e la rabbia di sopravvissuti e parenti
Il
processo in primo e secondo grado si svolse all’Aquila dopo
il trasferimento per “legittima suspicione” da Belluno. I reati ipotizzati per
dirigenti, tecnici e funzionari sia della Sade che del ministero dei Lavori
Pubblici furono, tra gli altri, cooperazione
in disastro colposo (sia di frana che di inondazione), omicidio e lesioni
colpose plurimi.
Le condanne definitive, in
Cassazione, furono emesse nel marzo
del 1971. Scatenando molte polemiche e arrivando per il rotto della
cuffia, perché la prescrizione di parecchi reati sarebbe arrivata soltanto due
settimane dopo. Il risarcimento per
i Comuni coinvolti, invece, dovette affrontare un’odissea giudiziaria che terminò soltanto
nel 1997 e poi nel 2000, a quasi 40 anni dalla tragedia. Quello
che però indignò per decenni gli amministratori locali e la popolazione fu il
fatto che nessuno, in
rappresentanza dello Stato, porse mai ufficialmente le scuse per l’accaduto.
Lo fecero l’allora ministro dell’Ambiente Andrea Orlando e il capo della
Protezione Civile Franco Gabrielli in occasione del 50esimo anniversario della
tragedia.
Quello che però sia
le carte processuali che diverse testimonianze hanno ormai chiaramente
stabilito è che, in massima parte, la
tragedia del Vajont sarebbe stata evitabile. La diga, come
scrisse Buzzati, fu senza dubbio un prodigio
tecnico e ingegneristico. Ma, sempre citando la sua metafora, a
poco servì avere un bicchiere resistentissimo se ci cadde dentro un sasso che
fece tracimare l’acqua sulla tovaglia. Quel rischio fu sottostimato o, peggio, ignorato.
Poche ore dopo il disastro, il responsabile delle costruzioni idrauliche della
Sade, Alberico Biadene,
mandò un cablogramma al direttore dei lavori, Mario Pancini — che si
suicidò nel 1968-: “Improvviso crollo enorme frana ha provocato tracimazione
diga Vajont, con gravi danni Longarone. stop. Diga ha resistito bene. Biadene”.
‘Diga ha resistito bene’, ma quasi 2mila persone non hanno purtroppo potuto
apprezzarlo.
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