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mercoledì 9 ottobre 2019

Lo Sapevate che: Nel 1963 il disastro del Vajont, 55 anni fa


La peggiore tragedia dell’Italia repubblicana (quasi 2000 vittime) sembrò un evento naturale. Ma non fu così

Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”. Così scriveva sul Corriere della Sera il 10 ottobre 1963, un giorno dopo la tragedia, Dino Buzzati.
La metafora è tanto efficace quanto cruda: alle 22:39 del 9 ottobre di 55 anni fa, quasi 270 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal monte Toc e, a una velocità di oltre 100 km/h, caddero nell’invaso creato dalla diga del Vajont, in Friuli-Venezia-Giulia. Provocando un’esondazione terrificante che, sviluppatasi in 3 direzioni, travolse praticamente ogni cosa. Le vittime furono 1917, spazzate via dalla furia dell’acqua ma anche dello spostamento d’aria, simile a quello di un’enorme bomba. Il paese più colpito fu Longarone, giù nella piana del Piave, già in territorio veneto: solo lì 1458 persone persero la vita.

Le frane precedenti e la preoccupazione della popolazione
 Quella del Vajont fu una tragedia a prima vista ‘naturale’ ma, dopo lunghi e complessi processi, è stato dimostrato che l’azione e soprattutto la negligenza umane sono state decisive. Che la zona della diga fosse soggetta a frane è attestato sin dall’epoca romana. E numerosi rapporti della società costruttrice, la Sade (privata), che di lì a breve avrebbe venduto l’impianto a Enel, sollevarono diverse perplessità. Un evento simile a quello del 1963 avvenne poi, in scala ridotta, nel 1960, il 4 novembre: 800.000 m³ di roccia caddero nel bacino della diga, causando un’onda di 10 metri che fortunatamente non fece grossi danni.
I timori della popolazione locale crebbero così ulteriormente. L’etimologia del nome “Toc”, quello del monte, viene da “patoc”, che nel dialetto locale vuol dire proprio “marcio, avariato”. Secoli di saggezza popolare sembravano però solo sciocca superstizione di fronte alle meraviglie della tecnica e dell’ingegneria del miracolo economico italiano: la diga fu terminata proprio nel 1960 (ma il ‘problema’ nella tragedia non fu tanto la diga, che resse, quanto l’errato e sottostimato calcolo dei rischi idrogeologici).

Gli allarmi inascoltati di Tina Merlin
Una persona in particolare, la giornalista dell’Unità Tina Merlin, scrisse prima delle tragedia diversi articoli per lanciare l’allarme sul rischio di costruire una diga in una zona franosa. La sua incessante attività le costò addirittura una causa giudiziaria per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, da cui fu assolta.
Anche alcuni dei suoi illustri colleghi, su tutti Indro Montanelli e lo stesso Buzzatila attaccarono personalmente, accusandola di speculazione politica: il Pci, partito/editore del giornale in cui lavorava Merlin, voleva la nazionalizzazione delle dighe. Lo stesso Buzzati, nel celeberrimo articolo citato all’inizio di questo nostro ricordo, dopo aver spiegato la meccanica della tragedia con la metafora tanto semplice quanto terribile del sasso, del bicchiere con l’acqua e della tovaglia, sulle cause scrisse poi con granitica certezza che “non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno (il cedimento di una diga nel Bergamasco nel 1923 che fece oltre 350 vittime, ndr) dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano”.
I processi e la rabbia di sopravvissuti e parenti
Il processo in primo e secondo grado si svolse all’Aquila dopo il trasferimento per “legittima suspicione” da Belluno. I reati ipotizzati per dirigenti, tecnici e funzionari sia della Sade che del ministero dei Lavori Pubblici furono, tra gli altri, cooperazione in disastro colposo (sia di frana che di inondazione), omicidio e lesioni colpose plurimi.
Le condanne definitive, in Cassazione, furono emesse nel marzo del 1971. Scatenando molte polemiche e arrivando per il rotto della cuffia, perché la prescrizione di parecchi reati sarebbe arrivata soltanto due settimane dopo. Il risarcimento per i Comuni coinvolti, invece, dovette affrontare un’odissea giudiziaria che terminò soltanto nel 1997 e poi nel 2000, a quasi 40 anni dalla tragedia. Quello che però indignò per decenni gli amministratori locali e la popolazione fu il fatto che nessuno, in rappresentanza dello Stato, porse mai ufficialmente le scuse per l’accaduto. Lo fecero l’allora ministro dell’Ambiente Andrea Orlando e il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli in occasione del 50esimo anniversario della tragedia.
Quello che però sia le carte processuali che diverse testimonianze hanno ormai chiaramente stabilito è che, in massima parte, la tragedia del Vajont sarebbe stata evitabile. La diga, come scrisse Buzzati, fu senza dubbio un prodigio tecnico e ingegneristico. Ma, sempre citando la sua metafora, a poco servì avere un bicchiere resistentissimo se ci cadde dentro un sasso che fece tracimare l’acqua sulla tovaglia. Quel rischio fu sottostimato o, peggio, ignorato. Poche ore dopo il disastro, il responsabile delle costruzioni idrauliche della Sade, Alberico Biadene, mandò un cablogramma al direttore dei lavori, Mario Pancini — che si suicidò nel 1968-: “Improvviso crollo enorme frana ha provocato tracimazione diga Vajont, con gravi danni Longarone. stop. Diga ha resistito bene. Biadene”. ‘Diga ha resistito bene’, ma quasi 2mila persone non hanno purtroppo potuto apprezzarlo.

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