“Credevo fosse l’ultimo
sabato che avrei mai visto”. Il ministro della Difesa dell’amministrazione
Kennedy, Robert
Mc Namara, commentò così il 27 ottobre 1962, il giorno in cui
la Crisi dei Missili di Cuba raggiunse
l’apice e il mondo fu a un passo dalla guerra nucleare tra Stati Uniti e Unione
Sovietica. Tredici
giorni di tensione crescente alla fine dei quali,
paradossalmente, la pace mondiale fu un filo più sicura. Tredici giorni che si
sono a tal punto fissati nell’immaginario del mondo occidentale, che
Stephen King in 22/11/93 (il
capolavoro sull’omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy) vi ha
ambientato una delle scene madri del libro: il protagonista svela alla donna
amata, terrorizzata dalla guerra che appare inevitabile, che non accadrà nulla
e che lui lo sa, perché viene dal futuro.
Tutto cominciò alcuni mesi prima, quando l’Unione sovietica
aveva iniziato l’installazione di missili capaci di trasportare testate
nucleari a Cuba, a meno di 150 chilometri dalle coste della Florida e in
grado quindi di colpire tutte le città della costa orientale degli Usa (a
cominciare da New York e Washington). A Cuba i barbudos di Fidel Castro (qui abbiamo ricordato i 90 anni
del Lider Maximo) avevano preso il potere nel gennaio del 1959, scacciando il
dittatore filo americano Fulgencio Batista. L’embargo deciso dagli Usa dopo che
il governo de L’Avana aveva nazionalizzato le società a capitale estero e il
fallito tentativo di invasione della Baia dei Porci avevano spinto l’isola nella braccia dell’Urss, in quel
momento guidata da Nikita Kruscev. Il Paese era impegnato in una serie di
schermaglie e provocazioni reciproche con gli Stati Uniti, in quella che
sarebbe poi stata conosciuta come Guerra Fredda. Mosca aveva subito visto in Cuba la possibilità di pareggiare il
bilancio strategico con gli Stati Uniti, il cui schieramento nucleare in
Turchia minacciava molte città della Russia e di altre repubbliche sovietiche.
L’inizio ufficiale della crisi è fissato al 14 ottobre, quando un aereo spia
americano U-2 (dello stesso tipo di quello abbattuto nei cieli sovietici nel
1960 la cui storia è raccontata ne Il ponte delle spie di Steven
Spielberg) fotografò un missile in corso di installazione nell’isola caraibica.
Kennedy, informato il 16 ottobre, riunì subito un comitato esecutivo (passato
alla storia come ExComm) del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che riuniva capi
politici e militari e che ebbe un ruolo centrale nella gestione della crisi. Ne
facevano parte tra gli altri, oltre al presidente, il ministro della giustizia
(e fratello del presidente) Robert Kennedy, il vice presidente Lyndon Johnson, il segretario di Stato Dean Rusk, Mc Namara e il presidente
del consiglio dei capi di Stato maggiore, il generale Maxwell D. Taylor.
La decisione di non
permettere all’Urss l’installazione dei missili fu unanime. La posta in gioco
era però altissima: se non sifosse trovato il modo di fermare lo spiegamento
dei missili, il prestigio degli Stati Uniti e la sua leadership mondiale ne
sarebbero stati irrimediabilmente compromessi e ciò era per la Casa Bianca
inaccettabile. Ma un confronto spinto alle estreme conseguenze avrebbe fatto
scoppiare una guerra mondiale tra potenze dotate di armamento nucleare. Contro
il parere dei “falchi” militari (tra i quali si segnalava per la sua durezza il
generale Curtis E. Lemay, capo di Stato Maggiore dell’aviazione e distruttore delle città
giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale) Kennedy respinse l’opzione militare diretta, preferendo
quella della “quarantena” navale di Cuba, con il divieto a navi di qualunque
nazionalità di avvicinarsi l’isola senza subire un’ispezione. Come fa notare
il sito
storico del
ministero degli Esteri americano, il termine quarantena fu scelto apposta al
posto di “blocco“, perché quest’ultimo
prevede l’esistenza di uno stato di guerra.
Il popolo americano e il resto del mondo vennero a conoscenza
della crisi in atto il 22 ottobre, quando Kennedy lo disse in un discorso in televisione,
annunciando anche il blocco navale. I toni furono molto duri: “La politica di
questa nazione sarà quella di considerare ogni missile nucleare lanciato da
Cuba contro qualunque nazione dell’emisfero occidentale come un attacco
lanciato dall’Unione Sovietica contro gli Stati Uniti, che provocherà una
rappresaglia con ogni mezzo nei confronti dell’Unione Sovietica”. L’emozione e la paura, soprattutto in Usa,
raggiunsero rapidamente livelli parossistici, con accaparramento di cibo
e carburanti. Un momento di svolta fu il 24 ottobre, con le navi sovietiche
cariche di rifornimenti (probabilmente anche di materiale militare) che si
avvicinavano al limite del blocco navale americano. Ma le navi fecero dietrofront e quelle che
passarono, sottoposte a ispezione da parte degli americani, non contenevano
materiale bellico. Era un successo della strategia kennedyana.
Tuttavia, come fa notare questo articolo su History.com,
restava il problema dei missili già installati. L’apice della crisi si
raggiunse sabato 27 ottobre, quando un altro U2 fu abbattuto sopra Cuba, mentre una forza di
invasione era pronta a lasciare le coste americane per l’isola. Ma la Russia
aveva già deciso di fare marcia indietro: un primo messaggio di Kruscev del 26
ottobre offriva di ritirare i missili se gli Stati Uniti avessero promesso di
non invadere l’isola e un dispaccio successivo (le comunicazioni, anche se difficili, tra Washington e
Mosca non si interruppero mai durante la crisi) offriva lo smantellamento dei sistemi di
lancio già installati se gli Usa avessero fatto una mossa analoga in Turchia. Così avvenne (anche se
l’opzione turca, a differenza della promessa di lasciare in pace
Castro, non venne mai annunciata e accettata ufficialmente) e il 28 ottobre la crisi poteva
considerarsi finita. Il blocco terminò il 20 novembre.
Studi successivi dimostrarono che sia Kennedy che Khruscev erano in realtà
trattativisti (a differenza dei rispettivi entourage militari) e che il rischio
maggiore nacque più dalla “nebbia di guerra” che aveva avvolto le rispettive decisioni che da una volontà
vera e propria di combattere. Per evitare il ripetersi di altri confronti del
genere, in cui le vicendevoli incomprensioni tra due sistemi politici e sociali
tanto diversi come Usa e Urss avrebbero potuto giocare un ruolo mortale, nel
1963 fu installata la cosiddetta linea rossa o linea calda tra Washington e Mosca, in modo che i leader potessero
parlarsi direttamente in caso di eventi gravi.
La
crisi di Cuba fu il momento forse più caldo della Guerra Fredda e anche il maggior trionfo del
giovane presidente Kennedy (eletto nel 1960 a 43 anni). In seguito il mito di
un Kennedy dai nervi d’acciaio che si confronta da solo con Kruscev e lo piega
al suo volere è stato in parte smontato (qui per
esempio un articolo dello storico della guerra fredda Michael Dobbs).
Ma ormai la leggenda era nata. Per ironia della sorte i protagonisti della
vicenda, che pure avevano evitato la guerra, furono “puniti” proprio per il
loro comportamento durante la crisi. Due anni dopo un colpo di Stato incruento
a Mosca, all’interno del Politburo, decretò la fine politica di Kruscev: uno
dei motivi fu il danno arrecato al prestigio sovietico dall’esito della vicenda
cubana. E a Miami un giovane comunista fu indignato per il modo con il quale
Kennedy aveva umiliato Castro. Il suo nome era Lee Harvey Oswald.
Avrebbe rivisto il presidente a Dallas, il 22 novembre del 1963, attraverso il
mirino di un fucile dalla finestra di un deposito di libri.
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