Con qualche
mese di anticipo sulla data di nascita di Eleonora Duse – il 3 ottobre di
centocinquant'anni fa – vedrà la luce editoriale il carteggio tra la grande
attrice e la sua unica figlia Enrichetta. Cinquantasei lettere scritte tra il
1892 ed il 1924, anno della morte della ultima "divina" del teatro di
prosa.
Da questi frettolosi surrogati di presenza materna emerge tutta l'ambivalenza
dei sentimenti che la Duse provò per la figlia e tutti i suoi sensi di colpa
per essere stata una madre lontana: "più padre che madre".
Eleonora, infatti, creatura indipendente, tutta assorta in se stessa e nella sua arte, amava profondamente il suo lavoro. Il teatro "insaziabile come l'amore" aveva sempre rappresentato la sua vera vita e la sua salvezza dagli scogli sui quali naufragava di volta in volta la sua vita sentimentale.
Era nata il 3 ottobre 1858 a Vigevano dove si era fermata, proveniente da Venezia, la Compagnia dei suoi genitori in cerca di nuove piazze teatrali. Costretti ad un perpetuo viaggiare, ad una vita faticosa e piena di solitudini per il compenso magro "contato soldo a soldo".
La piccola Eleonora mostrò molto precocemente quelle capacità di immedesimazione, dote essenziale delle grandi interpreti. A diciannove anni possedeva la figura, la voce e la capacità d'interpretazione da grande protagonista. L'aiutava, inoltre, un viso duttile, modesto e maestoso dai grandi e malinconici occhi oscuri dietro i quali s'intravedeva un mondo di mistero e di sogno.
Tuttavia il suo carattere e la sua intelligenza non riuscirono a salvarla dagli infortuni della sua "amorosa generosità femminile", dal suo profondo e passionale cuore di donna.
Alla fine dell'ottobre 1878, la ventenne Eleonora, scritturata come seconda donna dalla Compagnia primaria Ciotti - Belli Blanes, giunse a Napoli. La città mostrava già allora i suoi due volti completamente contrastanti: la vivacità della vita culturale ed il degrado dei vicoli poveri.
La "bellissima signorina Duse, artista di garbo e di grazia" attirò l'attenzione, tra gli altri, di Martino Cafiero, giornalista direttore del Corriere di Napoli presentatole dalla sua intima amica Matilde Serao.
Eleonora si innamorò senza limiti di questo uomo tutt'altro che bello, venti anni più vecchio ma figura di spicco della vita intellettuale napoletana. La giovane attrice che si guadagnava il pane da sola, che aveva una certa esperienza della realtà e che sulla scena dava libero sfogo alla passione ed alla sensualità, nella sua vita affettiva era ancora "pura e verginale". Si affidò completamente ad un amore che in realtà era unilaterale. Cafiero si fece presto freddo e distante, lontano dagli slanci passionali di una giovane donna che considerava – secondo gli schemi maschili dell'epoca – soltanto una commediante. Eleonora venne abbandonata e il giornalista non volle riconoscere il figlio nato dalla loro unione. Il bimbo, affidato ad una balia, morì dopo pochi mesi e la Duse si sentì per sempre piena di colpa e di vergogna. Disse: "Vi sono cose che il mondo non è disposto a cancellare dalla vita di una donna".
Venne per lei un matrimonio senza amore con il compagno d'arte Tebaldo Checchi, necessario a restituirle una virtù perduta. Venne finalmente quell'unica maternità "regolare". E vennero necessariamente altri amori. La lunga relazione con Arrigo Boito, deludente e discriminatoria. Boito, una celebrità come librettista verdiano, non dette alla Duse la nuova vita privata che lei si riprometteva con lui. Arrigo era un conservatore determinato a mantenere la propria posizione sociale. Lei, in quanto attrice non apparteneva al mondo borghese, era sostanzialmente un'emarginata.
E infine nella sua vita apparve Gabriele D'Annunzio, il "Vate" immaginifico. "Vedo il sole" gli scrisse Eleonora dopo il loro primo incontro "E ringrazio tutte le buone forze della terra per avervi incontrato".
Il sole di Gabriele, però, fu per la Duse, giunta alle soglie della maturità, un calore mortale, bruciante e crudele.
Le restò il teatro, trasposizione multiforme della sua vita. Il suo cammino d'arte rivoluzionò le scene. La sua recitazione abbandonò il passato declamatorio dell'epoca, la gestualità maestosa di Sarah Bernhardt – sua grande rivale – o di Adelaide Ristori – sua grande maestra – ed afferrò saldamente la contemporaneità. Legò se stessa al futuro. La recitazione moderna ebbe inizio con le sue interpretazioni coraggiose nelle quali si mostrava come "persona" reale. Contribuendo così a ribaltare la concezione tradizionale della donna. Mostrò infatti ciò che "il femminile" era davvero, fuori dagli schemi d'epoca.
Al termine del suo tempo sulla terra, i suoi stessi colleghi la salutarono come "una combattente caduta offrendo tutta sé stessa alle più alte idealità".
Eleonora, infatti, creatura indipendente, tutta assorta in se stessa e nella sua arte, amava profondamente il suo lavoro. Il teatro "insaziabile come l'amore" aveva sempre rappresentato la sua vera vita e la sua salvezza dagli scogli sui quali naufragava di volta in volta la sua vita sentimentale.
Era nata il 3 ottobre 1858 a Vigevano dove si era fermata, proveniente da Venezia, la Compagnia dei suoi genitori in cerca di nuove piazze teatrali. Costretti ad un perpetuo viaggiare, ad una vita faticosa e piena di solitudini per il compenso magro "contato soldo a soldo".
La piccola Eleonora mostrò molto precocemente quelle capacità di immedesimazione, dote essenziale delle grandi interpreti. A diciannove anni possedeva la figura, la voce e la capacità d'interpretazione da grande protagonista. L'aiutava, inoltre, un viso duttile, modesto e maestoso dai grandi e malinconici occhi oscuri dietro i quali s'intravedeva un mondo di mistero e di sogno.
Tuttavia il suo carattere e la sua intelligenza non riuscirono a salvarla dagli infortuni della sua "amorosa generosità femminile", dal suo profondo e passionale cuore di donna.
Alla fine dell'ottobre 1878, la ventenne Eleonora, scritturata come seconda donna dalla Compagnia primaria Ciotti - Belli Blanes, giunse a Napoli. La città mostrava già allora i suoi due volti completamente contrastanti: la vivacità della vita culturale ed il degrado dei vicoli poveri.
La "bellissima signorina Duse, artista di garbo e di grazia" attirò l'attenzione, tra gli altri, di Martino Cafiero, giornalista direttore del Corriere di Napoli presentatole dalla sua intima amica Matilde Serao.
Eleonora si innamorò senza limiti di questo uomo tutt'altro che bello, venti anni più vecchio ma figura di spicco della vita intellettuale napoletana. La giovane attrice che si guadagnava il pane da sola, che aveva una certa esperienza della realtà e che sulla scena dava libero sfogo alla passione ed alla sensualità, nella sua vita affettiva era ancora "pura e verginale". Si affidò completamente ad un amore che in realtà era unilaterale. Cafiero si fece presto freddo e distante, lontano dagli slanci passionali di una giovane donna che considerava – secondo gli schemi maschili dell'epoca – soltanto una commediante. Eleonora venne abbandonata e il giornalista non volle riconoscere il figlio nato dalla loro unione. Il bimbo, affidato ad una balia, morì dopo pochi mesi e la Duse si sentì per sempre piena di colpa e di vergogna. Disse: "Vi sono cose che il mondo non è disposto a cancellare dalla vita di una donna".
Venne per lei un matrimonio senza amore con il compagno d'arte Tebaldo Checchi, necessario a restituirle una virtù perduta. Venne finalmente quell'unica maternità "regolare". E vennero necessariamente altri amori. La lunga relazione con Arrigo Boito, deludente e discriminatoria. Boito, una celebrità come librettista verdiano, non dette alla Duse la nuova vita privata che lei si riprometteva con lui. Arrigo era un conservatore determinato a mantenere la propria posizione sociale. Lei, in quanto attrice non apparteneva al mondo borghese, era sostanzialmente un'emarginata.
E infine nella sua vita apparve Gabriele D'Annunzio, il "Vate" immaginifico. "Vedo il sole" gli scrisse Eleonora dopo il loro primo incontro "E ringrazio tutte le buone forze della terra per avervi incontrato".
Il sole di Gabriele, però, fu per la Duse, giunta alle soglie della maturità, un calore mortale, bruciante e crudele.
Le restò il teatro, trasposizione multiforme della sua vita. Il suo cammino d'arte rivoluzionò le scene. La sua recitazione abbandonò il passato declamatorio dell'epoca, la gestualità maestosa di Sarah Bernhardt – sua grande rivale – o di Adelaide Ristori – sua grande maestra – ed afferrò saldamente la contemporaneità. Legò se stessa al futuro. La recitazione moderna ebbe inizio con le sue interpretazioni coraggiose nelle quali si mostrava come "persona" reale. Contribuendo così a ribaltare la concezione tradizionale della donna. Mostrò infatti ciò che "il femminile" era davvero, fuori dagli schemi d'epoca.
Al termine del suo tempo sulla terra, i suoi stessi colleghi la salutarono come "una combattente caduta offrendo tutta sé stessa alle più alte idealità".
Rosanna Pilolli - http://www.pontediferro.org/articolo.php?ID=1223
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