Vasco Pratolini, il cantore della cronaca quotidiana
A 25 anni dalla sua
scomparsa, Vasco Pratolini rimane uno dei pochi scrittori italiani di
grande prestigio e insieme di umilissime origini. Nacque a Firenze, nel 1913,
in via de’ Magazzini, uno di quei vecchi quartieri simili a formicai, all’epoca
ancora isolati dal contesto del centro storico, brulicanti di operai e
artigiani. Il padre era un cameriere e la madre una sartina. Vasco rimase
orfano a neanche cinque anni di vita, quando la madre morì poco dopo aver dato
alla luce il secondo figlio. Questo evento segnò a lungo, negli anni, l’animo
dell’autore e si sviluppò nelle pagine di Cronaca familiare. Quando
il padre si risposa, Vasco va a vivere con la nonna materna; si allontana
precocemente, suo malgrado, dalle figure genitoriali, per frequentare i
coetanei, dediti a scorribande e bravate. L’atmosfera e lo spirito di questo
periodo è ben espressa in uno dei suoi racconti più compiuti, Una
giornata memorabile, contenuto in Diario sentimentale, del 1947
(Mondadori, 1962 e seguenti).
Imparò a leggere quasi
da solo, impratichendosi con le lapidi delle vecchie case fiorentine e le
tabelle stradali. Erano marmi con incise terzine dantesche, una vera
folgorazione per un ragazzo del popolo. Leggere Dante divenne un passaggio naturale:
dalle note della Commedia si debordava nella Storia, si
raggiungevano i biografi, si approfondivano i cronisti e i critici. In casa del
pittore Ottone Rosai ebbe modo di affinare le sue letture: Dickens, London, Dostoevskij,
Manzoni e Tozzi. La passione per la lettura e un forte processo di
identificazione con i suoi autori di riferimento («Döblin era ciò che avrei
voluto essere. Scambiavo Berlin – Alexanderplatz per Piazza Vittorio a
Firenze») lo indussero a scrivere racconti: «Scrivevo racconti congestionati,
di sommosse, di grandi prostitute, e così via, mettendoci dentro tutte le cose
che conoscevo allo stato embrionale, per averle vissute, o come supponevo di
viverle, e attraverso una fantasia piuttosto esaltata». Pratolini si
accorse ben presto di mancare di una struttura, di una formazione scolastica,
perciò di giorno fece i lavori più diversi, dal vice portiere in un albergo al
tipografo, o il rappresentante di commercio, e la sera si mise a studiare
con metodo, fino a diplomarsi in lingua francese. In seguito frequentò
sporadicamente l’Università, come uditore. Si manteneva – e nel frattempo stava
facendo la sua gavetta di scrittore – compilando tesi di laurea per studenti
pigri. Era una vita intensa e stressante, senza riposo, e finì per minare il
suo stato di salute, tanto che nel 1935 venne dato per spacciato, a causa di
una malattia polmonare. Si ricoverò di sua volontà a Villa Bellaria, ad Arco di
Trento. Il luogo era placido e suggestivo, circondato dalle montagne e con un
lago; vi era nato il pittore Segantini, un grande dell’Ottocento. A villa
Bellaria, Vasco vive una vita tranquilla, scandita da lunghe passeggiate e da
letture ordinate i cui frutti si concretizzeranno nelle sue prime produzioni.
È importante sottolineare quanto Pratolini fosse un carattere
fiero e impulsivo. La sua spavalderia e tutti i suoi atteggiamenti
irruenti e dispersivi si ridimensionano, ad Arco, a contatto con la sofferenza
e la pacatezza del luogo, che favorisce anche un ripensamento della sua
infanzia. Dimesso da villa Bellaria, rientra a Firenze e incappa in uno
degli incontri più cruciali della sua vita, quello con Elio Vittorini. Fu Vittorini
a cercarlo, come spiega lui stesso raccontandosi a Ferdinando Camon. Vittorini
aveva un fiuto per il talento e introduce Pratolini nel mondo letterario. Dal
1935 al 1938 il nostro diviene redattore, con lo stesso Vittorini e Romano
Bilenchi, del periodico «Il Bargello», organo della Federazione dei Fasci
di Combattimento di Firenze. Gli articoli della rivista erano ispirati a una
partecipe ma confusa interpretazione populista e rivoluzionaria del fascismo.
Il sodalizio fra i tre autori si rinforzò, prodigo di idee letterarie e
politiche che forgiarono il giovane Pratolini. A seguito della guerra
di Spagna i giovani più critici e sensibili cominciarono ad aprire gli occhi
sulle nefandezze del regime: «Ad esser fascisti di sinistra come noi, s’era
nell’imbroglio. La Spagna chiarì che eravamo contro gli operai e la cultura, ci
percosse come una realtà fisica. Non fu la via di Damasco, ma la controprova
dei nostri dubbi». Furono anni di persecuzione degli agitatori socialisti e
comunisti; ogni incontro o intesa con le masse popolari era soffocato sul
nascere dal regime, e l’anelito alla democrazia era espresso da una parte della
borghesia ancora vitale ma incapace di organizzarsi, arroccata nella
speculazione letteraria. Nel 1938 Pratolini ebbe un secondo incontro decisivo
nella sua vita, quello con Alfonso Gatto, arrivato a Firenze dopo
la persecuzione subita a Milano. Con Gatto, Pratolini fonda la rivista «Campo
di Marte», dove ha modo di rinsaldare le sue convinzioni politiche e maturare
la sua vocazione letteraria, con interventi filosofici, con recensioni, corsivi
e diari.
All’inizio degli anni
’40 si trasferisce a Roma, dove per qualche tempo lavora al Ministero per
l’Educazione Nazionale, nell’ufficio per l’arte contemporanea, accanto a
compagni di lavoro come Manlio Cancogni e Antonio Giolitti. Le sue mansioni
dovevano essere mortificanti, e l’ambiente squallido, nonostante il nome
altisonante. Pratolini cercava di leggere e studiare; trascorreva molte notti
insonne, a scrivere. Lo scrittore esordisce con una silloge di
racconti, Il tappeto verde (1941, ristampata nel 1981), dove
compaiono le figure della madre, della nonna, di suo padre e della matrigna, ma
anche i compagni di gioco e di risse, a recuperare un’infanzia ferita.
Anche il suo secondo libro, Via de’ magazzini (1941) è
imperniato sulla sua vicenda personale e tratta della sua infanzia e della
scoperta del mondo, della convivenza non gradita con la matrigna Matilde, della
morte del nonno e del ricordo trasognato e struggente della madre perduta.
Seguiranno Le amiche, del 1943, una raccolta di racconti che altro
non sono che ritratti di ragazze, più o meno amate, ricordate con
fervore e passione dalla voce narrante. In La prima avventura,
uno dei racconti, il giovane fugge di casa e procede nella sua scoperta della
notte, immerso in una Firenze lunare: il duomo bianco, l’incontro con una
prostituta sul lungofiume e una conversazione nel parco, portandosi dietro una
pesante valigia con pochi indumenti, un libro di Dostoevskij, uno di London e
la grammatica francese delle edizioni Sonzogno.
Se nei primi libri gli
spunti narrativi di Pratolini sono per lo più dettati dalla quotidianità e
dalla rievocazione autobiografica, con Il quartiere (1943) si
ampliano le tematiche: fanno capolino il motivo dell’amicizia, della solidarietà e dell’amore
come un sentimento che richiede impegno, altruismo e pazienza. Il “quartiere”
diviene il punto di convergenza di tutte le attività umane; il romanzo è un
evento corale e un’esaltazione lirica ed eroica della sofferenza in tempo di
guerra. Pratolini ha la capacità di ordire le sue narrazioni in tempi brevissimi,
e anche il libro successivo, Cronaca familiare (1947), viene
imbastito in poco più di una settimana. In una nota anteposta al romanzo
l’autore stesso avverte che non si tratta di un’opera di fantasia ma del suo
colloquio con il fratello morto, per depurarsi l’animo, in una sorta di
catarsi, riavvicinandosi al fratello (causa della morte prematura della madre)
in punto di morte, cercando motivi di condivisione laddove, negli anni, lo
aveva percepito così remoto e diverso da sé.
In contemporanea lavora a Cronache di poveri amanti, dove la necessità interiore è quella di rappresentare la
vita nel dettaglio, vissuta ora per ora, del popolo fiorentino tra il 1925 e il
1926. Il romanzo si apre con una visione d’insieme di
via del Corno; di primo mattino escono sulla scena Ugo, Maciste il maniscalco,
Osvaldo Liverani, rappresentante di commercio, Peppino e Antonio terrazziere. E
questo è solo l’inizio di una galleria di personaggi che viene arricchendosi
pagina dopo pagina. La
politica entra con prepotenza nel romanzo: Ugo riferisce a Maciste che ci sarà
una spedizione punitiva; i fascisti hanno organizzato dei tribunali
rivoluzionari e molti popolani ne faranno le spese, nel sonno.
Maciste parte con la moto per avvertire gli sventurati e la sua corsa diverrà
uno degli episodi più alti per stile e scrittura sui quali si impernia il
libro. I migliori di via del Corno cadono sotto i colpi fascisti, la strada è
una scena fissa, una rappresentazione che brilla per i dialoghi, per la
stratificazione degli episodi e per un’epoca che fluisce per mezzo loro.
La partecipazione di
Pratolini alla Resistenza fu il bisogno
spontaneo e sincero di essere il cronista di un evento irripetibile. La sua presenza di
autore, dopo il riconoscimento del premio Libera Stampa conferito a Cronache
di poveri amanti, si avvicenda a quella di collaboratore della stampa di
sinistra: da «Milano Sera» al «Nuovo Corriere» (diretto dal suo vecchio amico
Bilenchi) a «Paese Sera». Il libro successivo, Un eroe del
nostro tempo (1949) è, con tutta probabilità, uno dei suoi libri meno
convincenti. Racconta la storia di una giovane vedova, Virginia, che ha
subito un’educazione autoritaria e repressiva. La donna si trasferisce in un
quartiere di Firenze dove non conosce nessuno e, data la sua vulnerabilità,
diviene la facile preda di Sandrino, un fascista sedicenne che abita con la
madre in un appartamento stipato di sfollati. Sandrino circuisce la donna, ne
diviene l’amante e poi fugge a Milano con tutti i suoi averi, per costituire un
gruppo di azione fascista. Quando rientra a casa, dopo varie peripezie,
Virginia gli rivela di aspettare un figlio suo. Il finale è una spirale di
violenza; l’autore sviscera il male e condanna chi fa violenza a se
stesso e agli altri. Alberto Asor Rosa bolla il romanzo
come una prova di mestiere che deriva da un’elaborazione esterna, da Moravia e gli americani.
Siamo negli anni di piena affermazione del neorealismo, corrente alla quale
Pratolini fu molto vicino e che pensava potesse portare a una presa di
coscienza storico-collettiva.
Le ragazze di San
Frediano (1952) è invece improntato a un registro burlesco, una sorta di
balletto di ragazze attorno alla figura di un dongiovanni, Bob, prima conteso da tutte
e in seguito esposto al pubblico ludibrio della contrada, mortificato in quegli
attributi per i quali era stato in un primo tempo tanto ricercato. Tutto il
racconto sembra convergere, fin dall’inizio, sulla punizione da impartire al
Bob «dalle belle ciglia». Ogni incontro, dialogo e appuntamento del libro non fanno
che progredire verso l’esplosione di collera, rancori e gelosie ma anche di
gioia liberatrice ch’è la vendetta delle ragazze. Ma Pratolini non riesce a
essere spietato con gli ultimi, e anche se Bob è stato l’emblema della
vergogna, in una pagina finale un po’ sbrigativa, dopo il sospetto di
impotenza, vi è il perdono e la riabilitazione da parte di tutto il quartiere.
Della vasta e successiva
produzione pratoliniana va senza dubbio ricordata la trilogia di Una
storia italiana, iniziata con Metello (1955), col quale
l’autore vinse il premio Viareggio. L’idea era di programmare quello che lo
stesso Pratolini definì «uno specchio in tre tempi della storia dell’uomo. […]
di fare un lungo esame di coscienza a partire dal 1875 ed arrivare a oggi […]».
Metello Salani è un orfano allevato da contadini, che si trasferisce ancor
ragazzo a Firenze, per trovare lavoro. Nonostante l’intento programmatico
dell’opera il romanzo è colmo di pagine felici e convincenti. La presa
di coscienza del giovane Metello, come lavoratore e come militante nelle fila
del partito operaio, è la storia di Pratolini, scrittore di umile estrazione,
autodidatta, che si riscatta con fatica e con perseveranza dalla miseria.
Del secondo romanzo,Lo scialo (1960), colpiscono la lunghezza e lo
sfilacciamento degli episodi e dei micro-temi che reggono la narrazione. «La
vita è questo scialo di triti fatti» scrive Montale, e Pratolini lo
erige a titolo di un racconto che vuole essere un affresco globale
dell’ingiustizia della vita, del male e della corruzione che imperversava in
particolare nella piccola borghesia italiana arrivista e amorale tra il 1919 e
il 1926. Il testo è costituito da un alternarsi di monologo interiore e di forma
diaristica; gli scioperi al Pignone e l’ambiente rurale sono invece descritti
in uno stile più tradizionale. Il libro successivo, La costanza della
ragione (1963), sospende il ciclo dei tre libri sulla “storia
italiana”, e nelle dichiarazioni dello scrittore appare come un romanzo
anticipato, una risposta agli interrogativi rimasti aperti sulle pagine dei due
libri precedenti. Il titolo deriva dalla Vita Nova dantesca,
ed è una storia di giovani e della loro scoperta delle virtù e delle colpe dei
padri, sulla scorta del recupero di un passato condiviso, dove si definisce per
gradi la realtà contemporanea al momento della stesura, che ha per fondale
Firenze. I fatti privati si stagliano sulle prospettive aperte a un possibile
futuro anche sociale, di lavoro e di affetti. C’è un riavvicinamento ai temi
di Cronaca familiare e Il quartiere, ma mentre là
c’era la reticenza e il pudore delle emozioni e dei sentimenti, qui trabocca la
carica ideologica.
Le oltre 600 pagine
di Allegoria e
derisione (1966), il “terzo capitolo” di Una storia italiana,
sono ancora all’insegna della memoria: Valerio, il protagonista, assomiglia a
Vasco Pratolini ancor più del suo omonimo di Via de’ Magazzini e de Il quartiere. I riferimenti autobiografici sono
davvero molti, e vi prevale l’indagine della realtà, sopra ogni accento
sentimentale e lirico. Allegoria e derisione è la storia di un
intellettuale e delle sue traversie esistenziali per affermarsi come uno
scrittore di prestigio. In una tavolozza variegata di registri
e tecniche narrative, che comprendono l’apologo, le epistole, il diario e il
monologo interiore sono diversi i passaggi improntati a una critica polemica
della controversia sorta tra le due guerre a proposito dell’impegno in
letteratura.
Pur inviso a una certa
fazione della critica di professione, che non ha mancato di puntualizzarne gli
aspetti più pretestuosi e ideologici, la maggior parte dei recensori concordò,
fin dall’apparire delle prime opere, che la prosa più valida di Pratolini fosse quella ancorata
al mondo noto e familiare dell’autore. La realtà del quartiere è una
realtà cruda, di continuo rielaborata e filtrata, ma non è il singolo a essere
colpevole: i deboli, coloro che sbagliano, sono travolti dagli eventi della
Storia e vengono sempre giustificati con una superiore pietas, attraverso
l’indagine psicologica e d’ambiente. La memoria che scava nel privato non è mai, in
Pratolini, un’operazione sterile, bensì una sincera passione che travalica il
particolare per divenire ricerca del passato e condizione
della società. In questo Vasco Pratolini, a 25 anni dalla scomparsa, rimane un
pregiato cantore della cronaca del quotidiano, degli episodi famigliari e dei
fantasmi dell’autofinzione.
Nessun commento:
Posta un commento