(…) . Tuttavia , se c’è una proposta che le
accomuna è la riduzione delle dimensioni dei maggiori gruppi bancari. Essa
viene in genere considerata indispensabile per diversi motivi, più volte qui
richiamati: ridurre il potere che tali gruppi detengono sull’economia come sulla politica; diminuire
il rischio di una nuova crisi ancora più
grave di quella iniziata nel 2007; evitare che in presenza del rischio di
collasso sistemico, connesso al possibile fallimento di banche troppo grandi
per essere lasciate fallire, si rendano nuovamente necessarie nel prossimo
futuro misure di salvataggio comportanti oneri gravosi per i bilanci pubblici e
per i contribuenti.
Dal fronte delle banche e dei loro gruppi di esperti la
proposta di ridurre drasticamente le dimensioni dei gruppi bancari viene
contrastata con due argomenti: a) l’elevatissima crescita delle attività
finanziarie, quale si è verificata in specie dagli anni Ottanta, favorisce lo
sviluppo economico; b) l’aumento delle dimensioni di un gruppo bancario è stato
perseguito perché più esso è grande più cresce la sua produttività, il che si
traduce in minori costi dei servizi per i clienti piccoli e grandi. Accade però
che ricerche di ampia portata non sorreggano nessuna delle due affermazioni.
Alla domanda “c’è in giro troppa finanza?” risponde
affermativamente un nutrito rapporto del Dipartimento ricerca del Fmi, apparso
a giugni 2012, in cui viene esaminato un gran numero di ricerche empiriche su
questo tema distribuite nell’arco di oltre due decenni”. Gli autori concludono
che l’aumento della cosiddetta “profondità finanziaria”, definita in un altro
studio dello stesso Fmi come lo sviluppo dei mercati finanziari, la creazione
di una vasta platea di prodotti finanziari per la ripartizione del rischio e la
capacità dei mercati e degli intermediari di trattare grossi volumi di capitale
senza effetti rilevanti sui prezzi degli attivi, ha un effetto positivo sullo
sviluppo nei Paesi emergenti. Per contro l’effetto diventa nullo o negativo nei
Paesi avanzati. L’inversione di tendenza si osserva allorché il credito al
settore privato raggiunge l’80-100 per cento del Pil. (…) . Dato che per la
massima parte essi sono formati da crediti al settore privato, appare corretto
dedurre che il limite del 100 per cento del Pil sia stato da questi largamente
superato.
Dagli anni Novanta in avanti il sistema bancario europeo è
stato contrassegnato da un vorticoso susseguirsi di fusioni e acquisizioni, che
hanno ridotto il numero delle banche all’incirca da 14.000 a 7.000, mentre
hanno ingigantito a dismisura i venti o trenta gruppi maggiori. Gli studi
disponibili attestano che tali operazioni di “consolidamento”, come vengono
chiamate, sono state perseguite in prevalenza per scopi quali: creare valore
per l’azionista; accrescere le proprie dimensioni per ridurre il rischio di
venire conquistati da un gruppo concorrente; annettersi linee di prodotto
presenti nella banca bersaglio, evitando l’onere di doverle sviluppare da sé;
conquistare nuovi mercati all’estero, soprattutto negli Stati dell’Europa
orientale, soggetti a partire dagli anni Novanta a una rapida ed estesa
privatizzazione degli Istituti e dei mercati finanziari. Gli aumenti di
produttività dei servizi resi ai privati e al pubblico, quando mai si sono
materializzati, sono stati in genere una conseguenza indiretta
dell’acquisizione di banche piccole e poco efficienti da parte di grosse banche
che le organizzano a fondo. A un prezzo pagato soprattutto dal peronale: si stima
che soltanto le fusioni e acquisizioni del periodo 1990 – primi anni Duemila
abbiamo portato alla cancellazione di 130.000 posti di lavoro nel settore
finanziario della Ue.
(…)
Luciano Gallino
Il Colpo di Stato di Banche e Governi – L’attacco alla democrazia
in Europa
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