Scrive il teologo
ortodosso Christos Yannaras: “Se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli
di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a lui”
Nonostante la mia giovane età, non riesco più a sopportare il
peso di un fardello che mi porto dentro da molto e che è riuscito oramai ad
influenzare anche le mie relazioni interpersonali. Dopo anni di autoanalisi
sono finalmente giunta alla sorprendente conclusione che preferisco allontanare
chiunque mi si presenti, sia perché ho il terrore che egli “scompaia”,
derubandomi di una parte o della totalità della mia persona, sia perché in
fondo ho paura che io stessa, per mia natura, potrei “distruggerlo”,
annullandolo a mia volta. Forse, più semplicemente, non faccio al mio prossimo
ciò che non vorrei venisse fatto a me.
Inoltre, nonostante mi sia resa conto di non essere l’unica
ad attuare questo processo, non riesco a trarne alcuna consolazione.
Perché lo si fa? E’ paura di amare o incapacità di amare per
troppo amore di sé? Vorrei una risposta, che valga per me e anche per altri che
ho conosciuto e sembrano mostrare i miei stessi sintomi, in modo da poter
finalmente “riposare”. Se fossi pavida potrei sperare col tempo di essere
adatta ad amare. Se fossi narcisista potrei giungere, sempre col tempo, a una
serena rassegnazione riguardo la mia incapacità di amare, anche se è doloroso
constatare la mancanza dell’unica cosa che non posso avere, cioè la capacità di
provare vero amore.
Lettera firmata
La sua giovane età
giustifica il fatto che la sua lettera sia piena di “io”. Un io difensivo che
ha paura di farsi male innamorandosi, e un io, che si suppone offensivo e
distruttivo, che ha paura di far male all’altro se lo fa innamorare.
Potremmo pensare a un
io che ha ancora bisogno di costruire sé stesso, come diceva Freud, e che per
questo si difende dall’amore che è violazione della propria integrità. Se le
cose stanno così lasci tempo al tempo, e quando il suo io, dopo essersi
costruito adeguatamente, finirà per annoiarsi di se stesso, si aprirà
all’altro. Non per amare l’altro come solitamente si crede, ma per tenersi
accanto chi le ha consentito di scoprire l’altra parte di sé, che il suo io non
conosce e teme, ma di cui propriamente ci si innamora. Non ci innamoriamo
difatti di chiunque, ma solo di chi intercetta l’altra parte di noi stessi e
quindi ci svela.
Questa è anche
l’essenza del pudore, che non è una faccenda di vesti o sottovesti, ma il
rifiutarsi di mettersi a nudo con chi, del sottosuolo della nostra anima, non
ci ha svelato nulla. Questo è il limite della libertà sessuale del nostro tempo
che, nel mettere a nudo i corpi, non coinvolge l’anima, non destruttura l’io,
non dischiude l’abisso di noi stessi, e così ci impedisce di conoscere quel che
“in fondo” siamo, e che cosa da questo fondo possiamo generare, al di là
dell’orizzonte ristretto del nostro io, che Freud ha opportunamente definito un
“precipitato di difese”.
Ne è prova il fatto che
dopo ogni storia d’amore, finisca bene o male, non siamo più quello che
eravamo. Una generazione è avvenuta. Un io nuovo più capace di affrontare la
vita di quello antico, prima che amore lo destrutturasse e facesse crollare le
mura che lo difendevano dall’altra parte di se stesso, da cui solamente può
scaturire nuova forza di vita. Per questo desideriamo l’amore e al contempo
lo temiamo. Lo
desideriamo perché non ci stiamo più nei panni divenuti troppo stretti dell’io
con cui finora siamo cresciuti, e al tempo stesso lo temiamo perché l’io teme
di abbandonare gli ormeggi con cui ci siamo difesi dalla follia che ci abita e
verso cui ci conduce amore.
In amore, infatti, l’io
diventa passivo, e per questo parliamo di “passioni”, perché l’io patisce
l’altro, senza che la sua razionalità possa opporre una qualche resistenza, in
un momento magico, esaltante e anche minaccioso, in cui si viene a contatto,
graie a chi ce ne facilita l’accesso, a quell’ignoto che noi stessi siamo e
che, dal punto di vista dell’io, si chiama “follia”.
La follia d’amore che,
a differenza della follia patologica, ha il pregio di essere breve. Perché
nell’altra parte di noi stessi non possiamo dimorare se non per brevi attimi,
giusto il tempo di dire: “Mi fai impazzire”, “con te perdo la testa”, e di
fatto in quei momenti l’abbiamo già perduta.
Questo è l’amore:
violazione dell’io, perché possa emergere la parte ignota di noi stessi, da cui
un nuovo io possa rinascere, come ogni adolescente sperimenta con fascino,
sorpresa, straniamento e anche dolore, in quella stagione della vita in cui il
nostro io subisce lelimberti@repubblica.it più profonde trasformazioni.
Umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 25 gennaio 2014
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