Perdonare
Così duro
Così fragile
Un uomo convinto di
sapere sempre cosa è giusto. E una ragazza che per essere all’altezza delle sue
aspettative si rovina la vita. Ma riemerge dalle tenebre più forte. E finalmente
vera.
Caro papà.
Ti ricordi quando da bambina ti chiamavo “papo”? “Papà” non
mi piaceva. Era banale, troppo semplice, non ti si addiceva. Tu non eri come
gli altri. Eri il mio “papo” fantastico che faceva sempre tutto bene, non
sbagliava mai, aveva sempre ragione. Ne ero convinta. Talmente tanto che,
quando spontaneamente non ero d’accordo con te, poi finivo sempre per darti
ragione, adeguarmi alle tue aspettative e fare tutto quello che mi chiedevi di
fare o di dire. Ero una bambina piena di incertezze e di paure. Paura di non
essere all’altezza. Paura di non farcela. Paura di non essere come tu avresti
voluto che io fossi. Paura di essere sbagliata. Paura di non ottenere mai
quell’amore che mi promettevi, che avrei fatto qualunque cosa pur di avere, che
non riuscivo a meritare.
Eri il mio “papo” fantastico pieno di certezze e di ragioni:
“Questo non si fa”; “Questo non si dice”; “Questo non si pensa nemmeno”. E
allora cercavo sempre di fare come te, di non dire quello che non si doveva
dire, di non pensarlo nemmeno. Cercavo, appunto. Perché poi, nonostante gli
sforzi, non ce la facevo. E finivo sempre con l’impantanarmi in un mare di
“perché?” “Perché non posso uscire?”; “Perché ti arrabbi sempre?”; “Perché la
mamma piange?”; “Perché nella vita tutto è così difficile e complicato?”.
“Quando sei grande te lo spiego”, mi rispondevi impassibile e
senza batter ciglio. “perché quando divento grande? E se poi quando divento
grande, non mi ricordo più tutte le cose che ti ho chiesto?”, ti dissi un
giorno esasperata. Ma era l’ennesimo “perché” da aggiungere alla lista delle
domande vane. Ancora un’occasione persa per tacere e non contrariati. Prima di
svegliarmi la notte di soprassalto urlando “No!!!”. Litigando con te che non mi
ascoltavi, con te che volevi sempre avere un dubbio e rimettersi in discussione.
Caro paà, ho imparato tante cose standoti accanto. Mi sono
impegnata. Mi sono sacrificata. Ho fatto del “dovere” la mia bandiera. Ho
stretto i denti e sono andata avanti. Sempre e comunque. Troppo. Nonostante
talvolta mi invadesse la voglia di mollare tutto e di sparire via per sempre.
E, con il tempo, sono diventata anch’io cocciuta e impermeabile, convinta come
te che il solo modo di affrontare l’esistenza fosse concentrasi sulle proprie
certezze e lasciare perdere tutto il resto.
Fino a credere che per “riuscire” nella vita bisognasse
veramente “buttare il sangue”, come dicevi sempre tu. Perché nessuno ti regala
mai niente. Perché tutto dipende da noi. Perché è facile dirsi “bravi” da soli,
ma non è questo che conta nella vita.
Caro papà, cercando di essere esattamente come tu volevi che
io fossi, tante cose le ho ottenute. Ma a che prezzo? Ti sei mai chiesto come
vivevo? Ti ha mai sfiorato il dubbio che, in quella corsa folle e disperata per
compiacerti, stessi sacrificando la parte più importante di me, quella fatta di
sogni e fragilità, quella fatta di sorrisi ingoiati e di lacrime nascoste?
Quando mi sono “ammalata”, come dicevi sempre tu parlando
della mia anoressia, il mondo ti è crollato addosso. Hai maledetto il destino
infame che ti stava portando via la tua bambina. Hai imprecato contro la sorte.
Ma ti sei mai chiesto se per caso tu c’entrassi qualcosa con tutta quella
sofferenza che mi piombava addosso? Hai capito quello che ho cercato di dirti
per tanto tempo, quando chiedevo il tuo perdono per non avercela fatta e averti
deluso?
“Tu non mi hai deluso! Allora eri solo malata. Adesso sei di
nuovo la Michela di prima”, mi hai detto qualche anno fa quando, uscita dalle
tenebre dell’anoressia, ho ricominciato a vivere. Ma la Michela di oggi non ha
niente a che vedere con la Michela di prima, caro papà. La Michela di oggi ha dovuto
fare i conti con le tue certezze e farle a pezzi, ha dovuto smontare tutto e
ricominciare da capo, ha dovuto imparare ad accettarsi per com’è, con le sue
fragilità e le sue imperfezioni, con i suoi romanticismi e le sue lacrime
facili, con le sue fratture e le sue incertezze. La Michela di oggi ci ha messo
vent’anni di psicanalisi per smetterla di darti sempre ragione e capire che
anche tu sbagliavi, hai sbagliato, sbagli. La Michela di oggi di ama come
prima, certo. Anzi, forse ti ama anche più di prima. Ma il suo è un amore che
sa guardarti per come sei, cocciuto e intollerante, severo e talvolta
“cattivo”. E’ un amore più umano. Perché la Michela di oggi sa bene che tutte
quelle certezze che le sbattevi in faccia erano solo la punta dell’iceberg
delle tue stesse fragilità.
Oggi, quando ti guardo, mi intenerisco. Soprattutto quando mi
rendo conto che sei invecchiato e che non ce la fai più nemmeno tu a
controllare tutto. Ti dimentichi le cose da fare. Perdi le chiavi di casa.
Incespichi nei ragionamenti. E allora poco importa sapere se hai capito o no
quello che è successo. Ci sono cose, nella vita, che non si possono né capire
né accettare. E poi, per te, è praticamente impossibile riconoscere di aver
sbagliato. Ancora oggi, di fronte all’evidenza, sei capace di negare. “Papà
guarda che hai sbagliato strada! Dovevamo girare a sinistra e invece sei andato
dritto”. “non ho affatto sbagliato strada! Ne sto solo sperimentando una
nuova”.
Oggi sorrido. Oggi lo so che, se non riesci nemmeno ad
ammettere di esserti confuso e di aver sbagliato strada, è perché nel tuo
universo non c’è posto per gli errori. Non perché tu sia “cattivo”, come ho
pensato per tanto tempo, sbattendo contro le tue certezze e facendomi male.
Solo perché ammettere l’errore significa poi accettare la necessità di
rimettersi discussione. E quando si è cresciuti a forza di certezze, non si può
abbandonare quella colonna vertebrale che ci sostiene, senza pagarne un prezzo
troppo alto. Le tue certezze ti sorreggono. Çe tue certezze ti proteggono. Le
tue certezze sono un’ancora di salvataggio cui appoggiarti ogniqualvolta il
mondo che ti circonda vacilla. E in fondo va bene così. Non si può certo
cambiare a più di settant’anni, caro papà.
Oggi ti amo ancora più di prima. Perché ti accetto come sei
senza volerti diverso da quello che sei. Perché so che l’amore non si merita e
non si strappa. Perché se hai agito come hai agito, è perché anche tu avevi
alle spalle una storia complicata e piena di dolore. E che quel “dover essere”
che per anni mi ha perseguitato, è ciò che ti ha permesso di andare avanti e di
restare sempre integro e onesto Caro papà, se avessi un figlio cercherei di
amarlo così com’è, con le sue differenze e le sue paure, la sua voglia di
essere accettato e il suo desiderio di diventare grande e indipendente. Lo
amerei cos’ com’è, senza fare di tutto per cambiarlo o per imporgli le mie
“ragioni”. Cercherei sempre di rispondere ai suoi “perché”. Ammetterei di avere
dei dubbi e tante debolezze. Gli spiegherei quanto è stato faticoso imparare ad
accettarmi come sono e a smetterla di domandare agli altri conferme sul mio
valore. Gli racconterei tutte le battaglie che ho fatto contro di te per farmi
riconoscere e amare, e tutto il dolore che ho attraversato. Ma gli parlerei
anche della tua forza e del tuo senso del dovere. Perché riconoscere le proprie
fragilità non significa poi non avere sogni e non perseguirli. E, per
perseguire un sogno, c’è sempre bisogno di impegnarsi e fare delle rinunce. Nei
miei racconti, tu non saresti più quell’ “immagine ideale” che mi perseguitava
tanto quando ero bambina. Ma saresti sempre e comunque il mio “papo”
fantastico, anche se tante volte hai torto e, pur avendo torto, continui a
pretendere di aver ragione.
Caro papà, la vita mi ha insegnato che di certezze ne
esistono veramente poche. E che forse l’unico modo per fare la pace con se
stessi è accettare le incongruità e le contraddizioni dell’esistenza. Come il
mio amore per te. Sempre intatto, nonostante i litigi. Sempre presente,
nonostante le differenze che ci sono tra di noi. Sempre enorme. Perché lottare
contro il muro di cemento armato delle tue ragioni, nonostante tutto, mi ha
insegnato a dare un senso alle mie fragilità. E se io sono oggi come sono è
anche perché, per molti anni, sono stata sommersa dalle tenebre.
Michela Marzano – L’Espresso – 9 gennaio 2014
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