E’ una condizione
meravigliosa che si accende con la passione, ma che “càpiti” non basta: per
restare esige anche un nostro continuo e costante lavoro
Sono una ragazza di 20 anni. In questi giorni, mi capita
spesso di pensare di essere felice, anche
con la paura di urlarlo al mondo.
Ma la felicità vera esattamente cos’è? Gli amici me lo
chiedono spesso “Sei felice?”, e ogni tanto non so cosa rispondere e dubito se
lo sono davvero. Ho letto un libro che parlava della felicità dove lo scrittore
diceva che quando ti svegli con una musica allegra e un pensiero positivo in
mente sei felice per tutta la giornata. A volte quando non sono dell’umore
giusto ci provo, e penso che forse ha ragione. A volte, invece, mi rendo conto
che avere una famiglia e degli amici con cui piangere e gioire è una situazione
che dà la felicità. Ma esattamente, come definirla e riconoscerla?
Io l’ultima volta che sono stata davvero felice è stato
quando ho ricevuto la chiamata di una persona a cui tengo e in cui speravo ogni
giorno. Quel giorno è arrivato e ha portato la felicità. E’ questa, allora?
Lettera firmata
Quando l’inaspettato
che aspettavamo accade, siamo felici. Penso che l’inaspettato che lei aspettava
si chiama “amore”, quello iniziale, quello che comincia alimentato dalla
passione che, come scrive Stendhal “non è cieca, è visionaria”.
E’ la felicità che
Freud assimila al delirio, che, rispetto ai deliri patologici, “ha l’unico
pregio di essere breve”. Infatti, dopo l’incantamento che fa vedere il mondo
tutto a colori, incomincia il disincanto che sfuma la felicità in quella sona,
non sempre a colori, che è la ripetizione e la quotidianità. La felicità
promossa dalla passione è una felicità che dipende dall’altro. E’ stupenda
nella sua fase iniziale, ma non dura. L’idealizzazione che abbiamo fatto
dell’altro si stempera e accanto al suo aspetto luminoso, che la nostra
idealizzazione aveva creato, compare la sua ombra. Solo se siamo capaci di
amare anche la sua ombra, solo in quel momento nasce la felicità che dura.
Prima la felicità non
chiedeva alcun lavoro da parte nostra, la passione ci trascinava senza che noi
si opponesse alcuna resistenza. In questa mancanza di sforzo la felicità ci
invadeva e, per effetto della sua fascinazione, non ci accorgevamo di porre la
nostra felicità nelle mani dell’altro. La passione si chiama proprio così
perché è un “patire l’altro”. In quella condizione non possediamo noi stessi,
ma siamo posseduti. E la felicità che ci invade non dipende da noi, ma dall’altro
a cui abbiamo consegnato l’anima.
Per trovare la felicità
che dura, penso che non basta svegliarsi “con una musica allegra e un pensiero
positivo”, perché anche in questo caso siamo passivi: “ascoltiamo” e non
“creiamo” noi quella musica. I pensieri, poi, ci vengono e il loro colore non
lo decidiamo noi. La felicità, quella vera, ci vuole attivi. E’ una felicità
che non ci “capita”, ma che dobbiamo “costruire” a partire dal primo
insegnamento dell’oracolo di Delfi che dice: “Conosci te stesso”. Se evitiamo
questa conoscenza, nella vita prendiamo solo abbagli, inseguiamo modelli che
non ci corrispondono, perché non sappiamo chi siamo, non conosciamo la nostra
virtù, la nostra inclinazione, in termini religiosi, la nostra vocazione, ciò
per cui siamo nati. E quindi non realizziamo quello che gli antichi chiamavano
il nostro “demone”, dalla cui realizzazione scaturisce la felicità, in greco
“eu-daimonia”, la buona riuscita di sé.
Ma il secondo
insegnamento dell’oracolo di Delfi ci dice anche che questa realizzazione deve
avvenire “secondo misura”, perché dopo la conoscenza di sé è necessaria anche
la conoscenza del nostro limite, perché chi ignora il proprio limite, prepara
la sua rovina.
Se ci atteniamo a
queste due massime, costruiamo la felicità che dura, la quale non esclude la
felicità che ci capita, quella innescata dalle passioni, ma la riconosce nei
suoi limiti e non fa esclusivo affidamento a ciò che ci accade senza un nostro
lavoro. Il lavoro della realizzazione di sé non conosce abbandoni e tradimenti,
perché non abbiamo consegnato l’anima per intero a un altro come quando siamo
trascinati dalla passione.
Detto questo, non perda
il suo entusiasmo e le sue giornate felici. Alla sua età deve vivere tutte le
sue passioni, basta che sappia che hanno la durata di un giorno, mentre la
felicità che dura è più esigente, vuole la conoscenza di sé e la sua
autorealizzazione, che può essere anche il dono di un altro, ma solo se
l’altro, oltre all’amore, le riconosce anche la sua alterità, e non la
misconosce in quelle forme di possesso in cui gli amori spesso si risolvono
spegnendo la felicità. Per sempre.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 7 dicembre 2013
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