Tu Chiamale Se
Vuoi Frantumazioni
Vogliono separarsi
Bossi e Maroni. Si sono lasciati Monti e Casini. Alfano cerca il modo di
dividersi dai falchi di Berlusconi. E se vince Renzi…Qui e là è tutto un
fiorire di scissioni piccole e grandi. Vitalità politica o egoismi di leader?
Vediamo
Nella stagione delle larghe intese, tutti insieme
nervosamente per obbligo o per convinzione, la cronaca politica registra una
diffusa e irrefrenabile voglia di scissione. Meglio soli che male accompagnati.
L’elenco è lungo. Come nei matrimoni di lunga data, ci si lascia magari per
ragioni di orgoglio o di principio, vedi il vecchio e malandato Senatùr e
l’eterno rampante Roberto Maroni, peraltro già insidiato dal giovane Tosi,
veronese: così la Lega rischia di perdere il suo padre fondatore, e il patto
lombardo-veneto – che fece grande il movimento – io suo trait d’union.
Ci si separa poi, il più delle volte, per divergenze di linea
politica, come si diceva una volta, ma che oggi riguardano non tanto il che
fare ma con chi. E’ il caso di Mario Monti che, inventato ieri senatore a vita
da Giorgio Napolitano per avviare il tramonto del regime berlusconiano, deve
oggi fare i conti con Casini e Mauro, suoi alleati nella sfortunata campagna
elettorale 2013, diversamente democristiani che ora platealmente lo sfiduciano.
Di nuovo sensibili alla sirena dell’ex Cav. O al soffio della balenina bianca,
chissà.
Ancora. Perde per strada qualche stellina perfino il giovane
movimento di Beppe Grillo, che pure dovrebbe essere scanzonato e libertario e
invece è chiuso come una setta, dove scissione fa rima con censura di gesti,
comportamenti, giudizi: nell’impossibilità di gestirlo, il dissidente si
espelle. E’ già successo. Amen.
Ci Si Può Dividere poi, o almeno si minaccia di farlo,
anche per conflitti generazionali che intrecciano psiche e politica, Freud e
Letta, altrimenti come spiegare la grande sofferenza che accompagna il
tentativo di Alfano & Quagliarello di uccidere – politicamente, s’intende –
papà Silvio e di farsi finalmente autonomi, se non nella vita almeno in un
gruppetto parlamentare?
E si rischia una clamorosa separazione – come ha confessato
Massimo D’Alema a Marco Damilano (“Chi ha sbagliato più forte”, Laterza,
“l’Espresso” n.42) – nel partito democratico nato sei anni fa da una fusione
fredda e ora alle prese con il ciclone Renzi: dietro le primarie e la lotta per
la leadership si scontrano visioni opposte sull’idea di partito, sul
rinnovamento del gruppo dirigente, sulla legge elettorale, sulla necessità di
guardare per le future alleanze o al centro o a sinistra. Se si forza la mano,
si rischia la rottura; se si arriva a un compromesso, si butta via tutta la
carica dirompente insita nella sfida. Non è scelta da poco.
Senza Più La Forza delle ideologie o di valori
condivisi, le larghe frantumazioni sembrano l’unico elemento comune in una
situazione politica eternamente sull’orlo di elezioni anticipate. L’italica
tendenza alla divisione, al fiorire dei campanili, alla nascita di leaderini e
relativi partitini (con annesso finanziamento pubblico) ha ritrovato forza e
larghe giustificazioni nella stagione di Razzi & Scilipoti. L’assenza di
partiti forti e strutturati ha fatto il resto, cosicché ciò che ieri era
corrente interna è diventato oggi gruppo autonomo o minipartito. In questa
temperie è impossibile perfino un accordo sul presidente della commissione
parlamentare Antimafia. Se si pensa a un Capo dello Stato a tempo (per sua
scelta) e alla necessità di eleggerne prima o poi un altro, brividi corrono
lungo la schiena.
E’ come se, privo orai dei grandi leader avversari che negli
ultimi anni avevano creato e poi giustificato un bipolarismo di facciata, il
sistema politico cercasse ora altre strade, di tornare magari a ciò che era
prima del ventennio berlusconiano. La corsa al centro, dove si consumano
sanguinose rotture e scissioni, è solo la ricerca di nuovi equilibri dopo che
quelli vecchi sono saltati per sempre. In assenza di poteri forti è una
missione che potrebbe riuscire più a una legge elettorale che alla politica. In
stagioni normali tanta vitalità sarebbe segno di benessere politico; in tempi
perigliosi si traduce solo in perdita di tempo, autoreferenzialità,
impossibilità di governare.
Bruno Manfellotto – L’Espresso – 31 Ottobre 2013
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