Scrive il filosofo Jean
Baudrillard. “Parlare di morte fa ridere di un riso forzato e osceno. Parlare
di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la
morte è pornografica”
Ho avuto 5 tumori. Combatto da quando avevo 23 anni ed ora ne
ho 56. Quando morirò diranno: “Ma era malata da tanto”. Capisco perfettamente
che per tutti io sto dall’altra parte del muro invisibile che più o meno
consciamente si erge tra chi sta bene e quindi si considera normale e chi è
malato. La malattia rovina la vita, e io ne sono un’ottima testimone. Quello
che invece ritengo sia profondamente insensato è pensare a me come a una
sventurata candidata alla morte. L’unica differenza tra me e ogni altro essere
vivente è che io non posso dimenticare
di dover morire mentre gli altri, sì. Della fine della vita non si deve
parlare. I medici, quando ne parlo, mi consigliano qualche ottimo serotoninico.
Ma la realtà è che tutti possono ingannare se stessi negando l’ineluttabilità
della morte, tranne me e quelli come me. Dunque il mio problema, in fondo, è
solo di sapere troppo, di avere dovuto capire, per forza e troppo presto, che
il mio destino è quello di tutti gli esseri viventi. Il problema degli altri è
invece quello di rinforzare il muro immaginario per continuare a credere
disperatamente di poter rilegare me, e quelli come me, nell’area ben separata
degli sventurati a cui per sorte è toccato un destino mortale.
Francesca
Più che nel passato,
oggi la morte è ritenuta un evento insensato, assurdo, ma soprattutto un evento
da rimuovere, il più negativo dei pensieri che si possa affacciare alla nostra
mente, e di qui l’invito ad allontanarlo il più rapidamente possibile. E
siccome solitamente si muore a causa di una malattia (anche se Michel Foucault
ci avverte che “non moriamo perché si ammaliamo, ma ci ammaliamo perché
fondamentalmente dobbiamo morire”), accade che chi è colpito da una malattia è
come se venisse segregato in un altro mondo, nel mondo di chi non sta bene, e
così isolato, anche se occasionalmente consolato da parole di speranza a cui
non crede neppure chi le pronuncia. Questa è la ragione per cui c’è la tendenza
a nascondere la propria malattia, a essere reticenti per non compromettere il
proprio lavoro, i propri amori e quel normale rapporto con gli altri che è
possibile sola a chi abita il mondo dei sani.
Ci sono poi delle
malattie come un tempo la tubercolosi e oggi il cancro, dove basta pronunciare
la parola per essere iscritti nel mondo di coloro che sono destinati a morire.
Come se gli altri fossero immortali. Non ho mai capito perché uno che ha avuto
un infarto e che ha tante possibilità di morire quante ne ha uno affetto da un
cancro non vive quella sottile esclusione sociale che è riservata ai malati di
cancro, solitamente vissuti come dei condannati a morte. Nonostante i progressi
della scienza in questo campo, e come la sua storia ultratrentennale con la
malattia è in grado di smentire .
Ma c’è di più. C’è
quella terribile tendenza, avvalorata dalla psicoanalisi e dalle neuroscienze,
anche se non apertamente, a cercare cause psicologiche responsabili
dell’insorgenza della malattia, per cui ad esempio gli introversi, gli
ossessivi e quelli che tendono a tenersi dentro tutto, rabbie e passioni,
sarebbero più esposti al cancro, perché il corpo si incaricherebbe di pagare il
conto delle costrizioni dell’anima.
Georg Groddeck, amico
di Freud, diceva per esempio nel Libro dell’Es, a proposito della tubercolosi:
“ Muore solo chi vuol morire, colui per il quale la vita diventa
insopportabile”. In questo modo si toglie alla malattia la sua natura fisica
per attribuirla alla volontà della mente. Un modo come un altro per celebrare
la libertà dello spirito nei confronti della materia e, grazie a questa libertà,
si avanza l’ipotesi di poter sconfiggere la morte con la forza della volontà.
Quante volte l’abbiamo
sentito dire nelle parole che vogliono incoraggiare il malato. Il risultato di
queste “incoraggianti” ipotesi è che la vita o la morte dipendono da lui, per
cui se non riesce a guarire, in fondo è colpa sua.
E così, oltre alla
malattia, il malato che dovesse convincersi, si assume anche il senso di colpa
che queste insopportabili spiegazioni spiritualistiche aggiungono alla sua
sofferenza.
Anche in questo caso,
guardiamoci dalle celebrazioni dello spirito sui processi deterministici della
materia. In queste celebrazioni io leggo solo un’ulteriore difesa e un estremo
rifiuto nei confronti dell’ineluttabilità della morte.
umbertogalimberti@repubblica.it
– 26 Ottobre 2013
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