Ma la storia di
Ligresti ne ricorda un’altra: quella, feroce, di Sindona
Nelle settimane scorse,
complice anche l’anoressia di una giovane donna ristretta in carcere, si è
parlato molto della famiglia Ligresti e delle loro malefatte. E in effetti, la
storia è una specie di saga dell’Italia moderna.
Un ragazzo povero, ma volenteroso, giovane ingegnere, arriva
nella grande Milano dalla sconosciuta Paternò (Catania) e, dopo essere
sopravissuto al sequestro della mogie, mattone su mattone, scandalo su
scandalo, diventa uno dei dieci uomini più ricchi d’Italia. L’uomo – “don
Salvatore” - , viene ammesso nel “salotto buono” della finanza milanese e
accumula quote importanti di giornali, assicurazioni, grandi imprese, catene di
hotel, fino a quando tutto crolla e si scopre che Don Salvatore ha lasciato un
buco di un miliardo di euro (mica bruscolini), che banche volenterose, organi
di controllo e forze politiche ( tutti da lui sapientemente unti nel corso di
un trentennio) avevano coperto fino a quando hanno potuto.
Siccome nella Ligresti story sono echeggiate parole come
creditori truffati, Enrico Cuccia, Mediobanca, scatole cinesi, paradisi
fiscali, “piani di salvataggio”, aumenti di capitale generosissimi e senza un
perché, ho ripreso dagli Annali un’altra storia di finanza milanese, di più di
quasi quarant’anni fa, per vedere se la storia di Ligresti aveva dei
precedenti. E’ la storia di un altro ragazzo solo e volenteroso arrivato sotto la Madonnina dalla
lontanissima Patti, in provincia di Messina: L’avvocato Michele Sindona,
fiscalista.
Siccome Milano è una città ospitale, il fiscalista dal niente
fondò una banca: poi ne comprò un’altra (grossa) negli Stati Uniti; aveva
clienti in Vaticano, nel mondo politico, nella massoneria e nella mafia.
Tantissimi grossi personaggi usavano i suoi sportelli per esportare capitali, e
lui usava i loro depositi esteri per operazioni
spericolate. Andreotti era il suo referente politico e Sindona
Finanziava la sua corrente. Nel 1977 Sindona fece crack, con la Franklin Bank
negli Usa e con la Banca Privata in Italia; “la più grossa bancarotta” di
allora, l’equivalente di due miliardi di euro di oggi. Sindona ottenne
un’iniezione di denaro dal Banco di Roma, intimidì Mediobanca di Cuccia che si
opponeva al suo salvataggio, assistette felice all’arresto del governatore
della Banca d’Italia e del suo vice (Baffi e Sarcinelli) che avevano chiesto la
messa in liquidazione della sua banca, fece uccidere il commissario liquidatore
Giorgio Ambrosoli, l’uomo onesto e solo che aveva capito tutto. Organizzò il
suo finto rapimento e terminò la sua carriera nel carcere di Voghera, con
l’ormai famoso caffè. Intanto era arrivato Roberto Calvi, a prendere il suo
posto.
Come vedete le diversità sono ben più delle affinità. Quelli
erano tempi feroci, ora siamo tutti, non dico più onesti, ma certo più miti e
raffinati. Resta la suggestione di una Milano così sussiegosa, così azzimata –
allora come adesso – ma sempre così capace di farsi coglionare dal primo
outsider che passa. Passa, arraffa e poi fa crack.
Enrico Deaglio – Venerdì di Repubblica – 15 Novembre 2013
Nessun commento:
Posta un commento