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martedì 8 ottobre 2013

Lo Sapevate Che: Macchè Campioni Nazionali...


Alitalia e Telecom non sono fuoriclasse in niente, tranne che nel perdere soldi. Più che discutere sulla proprietà importa capire se saranno vincenti

Il linguaggio è davvero strano: le parole spesso sono usate per indicare qualcosa di diverso: di solito si rivelano i più lenti. Una  delle espressioni più fuorvianti, quanto meno in politica aziendale ed economica, è “fuoriclasse nazionale”. Di solito, il vero significato è “perdente nazionale”.
Quanto detto si deve tenere presente nel momento in cui nel mondo politico e nei media infuria il dibattito su Telecom Italia e Telefonica, Alitalia e Air France –Klm. Chi intende opporsi alla vendita a stranieri di queste partecipazioni azionarie parlerà di queste società come di fuoriclasse nazionali, una componente viva, motivo di orgoglio e di identità. Eppure né Alitalia né Telecom Italia sono fuoriclasse in niente, tranne che nel perdere soldi o nell’accumulare debiti.
Perché sono diventate squadre di serie B  è una storia lunga, che rientra nel lungo declino delle più importanti aziende italiane iniziato almeno trent’anni fa. Le piccole e medie imprese sono state di frequente autentici successi, anche se (paragonate alle loro equivalenti tedesche “Mittelstand”) sono rimaste per lo più piccole, concentrate sulla dimensione locale, meno ambiziose.
Ma le grandi aziende, di solito intrinsecamente legate allo stato e allo stato e alla politica – avvantaggiate spesso da mercati protetti, vendite privilegiate al settore pubblico e perfino monopoli – non sono riuscite a stare al passo con i cambiamenti subentranti a livello di tecnologia, di condotta dei consumatori, di politica (specialmente il potere dell’Unione europea di vietare i sussidi statali e i privilegi) e di globalizzazione. Le storie di Montedison, Fiat, e adesso Telecom Italia e Alitalia sono tutte di questo tipo.
Se queste società non-fuoriclasse adesso sono di proprietà straniera, si tratta di una sorta di fallimento: il fallimento di queste società nel restare competitive e il fallimento da parte del mondo politico e della politica di governo nel riconoscere compiutamente in che, come modo stesse cambiando il panorama della concorrenza. Nello stesso modo, quando alcuni marchi britannici vecchi e celebri, come  Jaguar e Land Rover, sono stati venduti prima agli americani (Ford) e ora agli indiani (Tata) non si è trattato di un segnale di forza lanciato dal settore automobilistico britannico. Non è stato qualcosa di cui andare fieri, e neppure da ignorare.
Ebbene, rammaricarsi di ciò è abbastanza logico. Ma opporsi a ciò, soltanto per mantenere la proprietà italiana, è un grosso errore. E’ un errore commesso dagli attuali azionisti di Alitalia, ovviamente, che si sono dati appuntamento per cercare “una soluzione  italiana” e hanno soltanto buttato via i loro soldi. E’ un errore, commesso forse per ragioni diverse, quello del Monte dei Paschi di Siena e della Fondazione Mps che nel 2007 hanno pagato una cifra assurda per rilevare Antonveneta dal Banco Santander spagnolo.
Perché è un errore? Non soltanto perché si parla di casi in , sucui si sono buttati via soldi. L’errore, quanto meno dal punto di vista dei contribuenti italiani, dei lavo italiani e molto semplicemente degli italiani in genere, è concentrarsi sulla proprietà delle quote azionarie di queste aziende invece che su ciò che esse sono effettivamente in grado di fare, su quello che è il loro ambiente di lavoro, su quello che è il loro ambito normativo.
La proprietà, nelle economie moderne, dovrebbe interessare soltanto ai capitalisti stessi. Non conta se il tuo datore di lavoro è britannico o tedesco o francese o italiano. Ciò che conta è a quali leggi egli si dovrà attenere, quanto bene amministrerà l’azienda, come ti tratterà in quanto dipendente, se investirà nelle nuove tecnologie, se pagherà salari più alti.
Noi britannici abbiamo smesso da tempo di preoccuparci se le aziende di servizio che ci assicurano il rifornimento di energia elettrica o acqua o telefono sono di proprietà di azionisti francesi o tedeschi o malesi. Ciò che ci sta a cuore davvero è se queste aziende sono amministrate come si deve, nell’interesse pubblico, o se la fornitura di questi servizi è garantita e affidabile.
Di conseguenza, agli italiani non dovrebbe importare se gli stranieri acquistano le aziende “perdenti nazionali”. Farebbero meglio, invece, a stare particolarmente attenti ad altre cose.
La prima è se c’è del vero nelle storie che si raccontano della vendita di Telecom Italia e di Alitalia. Forse è così, ma appare quanto meno sospetto il fatto che siano saltate fuori subito dopo il piano  “ Destinazione Italia” del governo Letta messo a punto per incentivare gli investimenti stranieri in Italia, Può anche darsi che si dia risonanza a ciò per altre ragioni politiche o di prove  di forza.
La seconda è di che cosa preoccuparci davvero qualora tali storie si rivelassero fondate. Non si sta parlando di chi sta acquistando azioni, ma di quali opportunità, privilegi o vincoli si presenteranno una volta che le aziende saranno state acquisite. Un monopolio di proprietà straniera non è meglio di uno di proprietà locale: anzi, sarebbe peggio. Proprio come una società di proprietà straniera ancora riconoscente nei confronti dei partiti politici italiani non sarebbe sicuramente meglio.
In conclusione, la vera domanda da porci non è chi è il proprietario, ma se qualcosa nell’assetto di quella società cambia al punto da poterla trasformare da perdente in vincente. E’ in questo modo, infatti, che si creano i veri fuoriclasse.
Traduzione di Anna Bissanti
Di Bill Emmot – L’Espresso – 3 Ottobre 2013


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