Alitalia e Telecom non
sono fuoriclasse in niente, tranne che nel perdere soldi. Più che discutere
sulla proprietà importa capire se saranno vincenti
Il linguaggio è davvero strano: le parole spesso sono usate
per indicare qualcosa di diverso: di solito si rivelano i più lenti. Una delle espressioni più fuorvianti, quanto meno
in politica aziendale ed economica, è “fuoriclasse nazionale”. Di solito, il
vero significato è “perdente nazionale”.
Quanto detto si deve tenere presente nel momento in cui nel
mondo politico e nei media infuria il dibattito su Telecom Italia e Telefonica,
Alitalia e Air France –Klm. Chi intende opporsi alla vendita a stranieri di
queste partecipazioni azionarie parlerà di queste società come di fuoriclasse
nazionali, una componente viva, motivo di orgoglio e di identità. Eppure né
Alitalia né Telecom Italia sono fuoriclasse in niente, tranne che nel perdere
soldi o nell’accumulare debiti.
Perché sono diventate squadre di serie B è una storia lunga, che rientra nel lungo
declino delle più importanti aziende italiane iniziato almeno trent’anni fa. Le
piccole e medie imprese sono state di frequente autentici successi, anche se
(paragonate alle loro equivalenti tedesche “Mittelstand”) sono rimaste per lo
più piccole, concentrate sulla dimensione locale, meno ambiziose.
Ma le grandi aziende, di solito intrinsecamente legate allo
stato e allo stato e alla politica – avvantaggiate spesso da mercati protetti,
vendite privilegiate al settore pubblico e perfino monopoli – non sono riuscite
a stare al passo con i cambiamenti subentranti a livello di tecnologia, di
condotta dei consumatori, di politica (specialmente il potere dell’Unione
europea di vietare i sussidi statali e i privilegi) e di globalizzazione. Le
storie di Montedison, Fiat, e adesso Telecom Italia e Alitalia sono tutte di
questo tipo.
Se queste società non-fuoriclasse adesso sono di proprietà
straniera, si tratta di una sorta di fallimento: il fallimento di queste
società nel restare competitive e il fallimento da parte del mondo politico e
della politica di governo nel riconoscere compiutamente in che, come modo
stesse cambiando il panorama della concorrenza. Nello stesso modo, quando
alcuni marchi britannici vecchi e celebri, come
Jaguar e Land Rover, sono stati venduti prima agli americani (Ford) e
ora agli indiani (Tata) non si è trattato di un segnale di forza lanciato dal
settore automobilistico britannico. Non è stato qualcosa di cui andare fieri, e
neppure da ignorare.
Ebbene, rammaricarsi di ciò è abbastanza logico. Ma opporsi a
ciò, soltanto per mantenere la proprietà italiana, è un grosso errore. E’ un
errore commesso dagli attuali azionisti di Alitalia, ovviamente, che si sono
dati appuntamento per cercare “una soluzione
italiana” e hanno soltanto buttato via i loro soldi. E’ un errore,
commesso forse per ragioni diverse, quello del Monte dei Paschi di Siena e
della Fondazione Mps che nel 2007 hanno pagato una cifra assurda per rilevare
Antonveneta dal Banco Santander spagnolo.
Perché è un errore? Non soltanto perché si parla di casi in ,
sucui si sono buttati via soldi. L’errore, quanto meno dal punto di vista dei
contribuenti italiani, dei lavo italiani e molto semplicemente degli italiani
in genere, è concentrarsi sulla proprietà delle quote azionarie di queste
aziende invece che su ciò che esse sono effettivamente in grado di fare, su
quello che è il loro ambiente di lavoro, su quello che è il loro ambito
normativo.
La proprietà, nelle economie moderne, dovrebbe interessare
soltanto ai capitalisti stessi. Non conta se il tuo datore di lavoro è
britannico o tedesco o francese o italiano. Ciò che conta è a quali leggi egli
si dovrà attenere, quanto bene amministrerà l’azienda, come ti tratterà in
quanto dipendente, se investirà nelle nuove tecnologie, se pagherà salari più
alti.
Noi britannici abbiamo smesso da tempo di preoccuparci se le
aziende di servizio che ci assicurano il rifornimento di energia elettrica o
acqua o telefono sono di proprietà di azionisti francesi o tedeschi o malesi.
Ciò che ci sta a cuore davvero è se queste aziende sono amministrate come si
deve, nell’interesse pubblico, o se la fornitura di questi servizi è garantita
e affidabile.
Di conseguenza, agli italiani non dovrebbe importare se gli
stranieri acquistano le aziende “perdenti nazionali”. Farebbero meglio, invece,
a stare particolarmente attenti ad altre cose.
La prima è se c’è del vero nelle storie che si raccontano
della vendita di Telecom Italia e di Alitalia. Forse è così, ma appare quanto
meno sospetto il fatto che siano saltate fuori subito dopo il piano “ Destinazione Italia” del governo Letta
messo a punto per incentivare gli investimenti stranieri in Italia, Può anche
darsi che si dia risonanza a ciò per altre ragioni politiche o di prove di forza.
La seconda è di che cosa preoccuparci davvero qualora tali
storie si rivelassero fondate. Non si sta parlando di chi sta acquistando
azioni, ma di quali opportunità, privilegi o vincoli si presenteranno una volta
che le aziende saranno state acquisite. Un monopolio di proprietà straniera non
è meglio di uno di proprietà locale: anzi, sarebbe peggio. Proprio come una
società di proprietà straniera ancora riconoscente nei confronti dei partiti
politici italiani non sarebbe sicuramente meglio.
In conclusione, la vera domanda da porci non è chi è il
proprietario, ma se qualcosa nell’assetto di quella società cambia al punto da
poterla trasformare da perdente in vincente. E’ in questo modo, infatti, che si
creano i veri fuoriclasse.
Traduzione di Anna Bissanti
Di Bill Emmot – L’Espresso – 3 Ottobre 2013
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