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giovedì 25 gennaio 2018

Speciale: Quando la seduzione diventa dittatura...

Ayad Akhtar È uno dei migliori autori contemporanei. Ha vinto un Pulitzer e a Broadway ha fatto il tutto esaurito per mesi con il suo ultimo spettacolo, Junk, sui pirati della finanza. Nell’accettare il Premio Steinberg per la sceneggiatura, ha fatto un discorso importante, di cui vi cito un passaggio. “Non sono ottimista sullo stato della nostra nazione, e neppure della specie umana. Non sono peno di speranza, perché mi sto convincendo che anche la mia speranza, viene monetizzata. Ciò che è più durevole, più nobile, più umano dentro me stesso – la mia aspirazione verso qualcosa di più luminoso, vivido, peno di amore – tutto questo viene usato contro di me. Sessant’anni fa il presidente Eisenhower ci mise in guarda contro il complesso militar-industriale (il groviglio di interessi che monetizza la guerra). Oggi c’è meno profitto dalle guerre che dallo sfruttamento commerciale della nostra attenzione. Un nuovo blocco d’interessi occulti ha la posizione dominante. I mercati dell’attenzione – Google, Facebook, Twitter, Apple – si sono uniti alle potenze antiche della finanza per creare quello che chiamo il complesso attenzione-finanza. Ci hanno venduto apparecchi ai quali siano incollati non solo per un meccanismo compulsivo. Il principio del piacere – preda da sempre delle manipolazioni del capitalismo – viene usato contro di noi. Siamo soggiogati irrimediabilmente, piegati a finalità che non sono nostre. La nostra umanità viene ridefinita. La tecnologia trasforma ogni movimento della nostra mente in un flusso di guadagno per qualcuno. Ci hanno rifilato la tavola per cui questo restringimento del mondo in flussi d’informazioni monetizzata è la nostra liberazione. (…) La mia difesa contro la colonizzazione finanziaria del mio desiderio e della mia speranza (…) ha a che fare con il corpo dell’attore. Un essere vivente di fronte a un pubblico vivente. Non l’apparenza di una persona, ma la sua realtà. Non un simulacro, bensì una vera relazione” È la risposta migliore a una domanda che mi viene spesso rivolta personalmente: perché alcuni di noi giornalisti si danno al teatro? Nel mio caso, sarò in tournée nazionale dal 22 gennaio al 3 febbraio con il nuovo spettacolo Trump Blues o l’Età del Caos, dal Nordest all’Emila, dalla Toscana al Piemonte, per finire con Genova e Roma. Perché fare teatro? Per disperazione, per rivolta, per non rinunciare alla speranza, ad avere un dialogo vero, una relazione diretta con altri esseri umani. Ayad Ahtar lo ha detto meglio di me. Voglio ribellarmi alla dittatura dei Padroni della Rete che è diventata l’ideologia del nostro tempo: dominio della superficialità, di una velocità fine a se stessa e quindi inutile, di un narcisismo dei selfie, spacciato per socialità. Mi pare incredibile che solo vent’anni fa fossimo abituati a guardare le persone negli occhi, mentre oggi i nostri occhi li comanda il display dello smartphone. Non c’è nulla di questa evoluzione che meriti l’etichetta del progresso. E’ finto modernismo, è patetico giovanilismo rincorrere l’ultimo gadget e l’ultima app per paura di sembrare obsoleti. La storia non avanza per forza verso il meglio. Al contrario, grandi capitoli furono segnati dal regresso, dall’imbarbarimento, dall’autodistruzione. Peggio che in Tempi moderni di Charlie Chaplin (googlatelo pure), peggio che in Metropolis di Fritz Lang (idem), i presunti moderni si stanno trasformando in docili automi, al servizio delle nuove oligarchie del denaro. Non è detto che si riesca ancora a invertire il corso della storia. Ma ribellarsi è un diritto, è un dovere, può perfino essere l’ultimo vero piacere.

Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 20 gennaio 2018 -

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