Ayad Akhtar È uno dei migliori autori
contemporanei. Ha vinto un Pulitzer e a Broadway ha fatto il tutto esaurito per
mesi con il suo ultimo spettacolo, Junk, sui pirati della finanza.
Nell’accettare il Premio Steinberg per la sceneggiatura, ha fatto un discorso
importante, di cui vi cito un passaggio. “Non sono ottimista sullo stato della
nostra nazione, e neppure della specie umana. Non sono peno di speranza, perché
mi sto convincendo che anche la mia speranza, viene monetizzata. Ciò che è più
durevole, più nobile, più umano dentro me stesso – la mia aspirazione verso
qualcosa di più luminoso, vivido, peno di amore – tutto questo viene usato
contro di me. Sessant’anni fa il presidente Eisenhower ci mise in guarda contro
il complesso militar-industriale (il groviglio di interessi che monetizza la
guerra). Oggi c’è meno profitto dalle guerre che dallo sfruttamento commerciale
della nostra attenzione. Un nuovo blocco d’interessi occulti ha la posizione
dominante. I mercati dell’attenzione – Google, Facebook, Twitter, Apple – si
sono uniti alle potenze antiche della finanza per creare quello che chiamo il
complesso attenzione-finanza. Ci hanno venduto apparecchi ai quali siano
incollati non solo per un meccanismo compulsivo. Il principio del piacere –
preda da sempre delle manipolazioni del capitalismo – viene usato contro di
noi. Siamo soggiogati irrimediabilmente, piegati a finalità che non sono
nostre. La nostra umanità viene ridefinita. La tecnologia trasforma ogni
movimento della nostra mente in un flusso di guadagno per qualcuno. Ci hanno
rifilato la tavola per cui questo restringimento del mondo in flussi
d’informazioni monetizzata è la nostra liberazione. (…) La mia difesa contro la
colonizzazione finanziaria del mio desiderio e della mia speranza (…) ha a che
fare con il corpo dell’attore. Un essere vivente di fronte a un pubblico
vivente. Non l’apparenza di una persona, ma la sua realtà. Non un simulacro,
bensì una vera relazione” È la risposta migliore a una domanda che mi viene
spesso rivolta personalmente: perché alcuni di noi giornalisti si danno al teatro?
Nel mio caso, sarò in tournée nazionale dal 22 gennaio al 3 febbraio con il
nuovo spettacolo Trump Blues o l’Età del Caos, dal Nordest all’Emila, dalla Toscana
al Piemonte, per finire con Genova e Roma. Perché fare teatro? Per
disperazione, per rivolta, per non rinunciare alla speranza, ad avere un
dialogo vero, una relazione diretta con altri esseri umani. Ayad Ahtar lo ha
detto meglio di me. Voglio ribellarmi alla dittatura dei Padroni della Rete che
è diventata l’ideologia del nostro tempo: dominio della superficialità, di una
velocità fine a se stessa e quindi inutile, di un narcisismo dei selfie,
spacciato per socialità. Mi pare incredibile che solo vent’anni fa fossimo
abituati a guardare le persone negli occhi, mentre oggi i nostri occhi li
comanda il display dello smartphone. Non c’è nulla di questa evoluzione che
meriti l’etichetta del progresso. E’ finto modernismo, è patetico giovanilismo
rincorrere l’ultimo gadget e l’ultima app per paura di sembrare obsoleti. La
storia non avanza per forza verso il meglio. Al contrario, grandi capitoli
furono segnati dal regresso, dall’imbarbarimento, dall’autodistruzione. Peggio
che in Tempi moderni di Charlie Chaplin (googlatelo pure), peggio che in Metropolis di Fritz Lang (idem), i
presunti moderni si stanno trasformando in docili automi, al servizio delle
nuove oligarchie del denaro. Non è detto che si riesca ancora a invertire il
corso della storia. Ma ribellarsi è un diritto, è un dovere, può perfino essere
l’ultimo vero piacere.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 20
gennaio 2018 -
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