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domenica 7 gennaio 2018

Lo Sapevate Che: Le maestre che decisero di cambiare registro...

Roma. Povera Italia! Aveva vent’anni e sognava una vita piccola e tranquilla; invece le maldicenze non le lasciarono scampo. Oggi si parlerebbe di stalking, ma era il 1886 e la maestra Italia Donati era una delle tante ragazze che, dopo essersi diplomate con sacrifici immensi, finivano a insegnare in paeselli remoti, nelle cascine, sui monti, ritrovandosi sottopagate, a condurre vite monacali; e già questo essere sole e lontane da casa suscitava sempre malevolenza e sospetto. Per mettere ine alle voci che a Porciano, in Toscana, la volevano amante del sindaco e l’accusavano di avere abortito. Italia, disperata, arrivò a implorare il consiglio comunale – all’epoca erano i municipi ad assumere gli insegnati, previo attestato di moralità – di organizzare nientedimeno che una visita ginecologica (le fu risposto di no. Non sopportava più le risatine astiose delle piccole allieve che alle sue spalle la chiamavano troia e bagascia. Alla fine, indossò il grembiule rosso della scuola e si lasciò annegare nell’acqua di un mulino. A Cintolese (Pistoia), dove era nata, le hanno intitolato la scuola elementare, almeno questo. E ora la sua storia apre il libro di Bruna Bertolo, Maestre d’Italia. Sono brevi ritratti che ci riportano ai primi anni dell’Unità d’Italia – quando 17 dei 22 milioni di abitanti firmavano con la croce – e fra cattedre, grembiulini e fucilate attraversavano il fascismo, la Grande Guerra, la cacciata degli ebrei dalle scuole e la Resistenza, su su fino al Dopoguerra. Un’avventura che comincia con l’approvazione della legge Casati e il via all’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, maschi e femmine. In molti piccoli centri, dove le casse erano vuote. Fu un disastro: le maestre, preferite dagli uomini perché tra l’altro le si pagava molto meno, accolte in stanzacce fatiscenti insegnavano a scrivere e far di conto a 80-90 ragazzini cenciosi, denutriti, con le mani piene di calli come gli adulti. Nel 1886, l’anno in cui l’Italia si suicidava, ambientato a Torino usciva Cuore, con la sua maestrina dalla penna rossa e la voce argentina che par che canti. Ma era Torino, appunto, mica la Calabria, dove l’analfabetismo fra le donne arrivava al 90 per cento e morire di parto era un destino facile. C’è da dire che arrancando e faticando questo esercito di diplomate (nel 1901 già 62mila), divenne un vero ceto intellettuale. Una di loro era Sibilla Aleramo, che rimase sbigottita davanti ai tuguri dei “capannari” dell’Agro romano e delle paludi pontine, e perciò si lanciò a capofitto nella missione di aprire scuole, e poi Ida Baccini, Maria Montessori, Matilde Serao, Ada Negri. Ne succedevano delle belle. Nel 1905, il Coitato pro suffragio invitò le donne a iscriversi provocatoriamente, anche in Sicilia, anche in Sardegna. La spuntarono dieci maestre di Senigallia: mentre tutte le altre Corti di Appello decidevano in senso opposto, il magistrato Ludovico Mortara stabilì che lo Statuto Albertino non faceva distinzione tra i sessi a proposito di diritti e doveri politici e diede ragione alle ribelli. Grande fu lo sconcerto fra i giuristi e sui giornali, benché poi siano occorsi solo pochi mesi alla Cassazione per riportare l’ordine e fare cadere le illusioni. Il vento socialista e anche quello del femminismo cristiano spingevano per il cambiamento. Ecco allora figure combattive come quella di Linda Malnati, nata a Milano nel 1855, sospesa dall’insegnamento per aver partecipato alla sollevazione popolare repressa dal generale Bava Beccaris (“Il macellaio”). Con la compagna Carlotta Clerici, volle aprire la sezione femminile alla Camera del lavoro di Milano. Si batté perché le “stelline” dell’orfanotrofio potessero andare a scuola, si schierò contro l0insegnamento religioso e per la refezione gratuita. “Noi donne eravamo in ginocchio, il socialismo ci ha rialzato scrisse prima di morire. Ci sono biografie che si intrecciano in modo bizzarro. La pavese Maria Giudice, divenuta maestra a Voghera, si innamora di un agricoltore anarchico con il quale, in dieci anni, tra un arresto e un comizio, mette al mondo sette figli. Lui muore al fronte, lasciandola in povertà ma non vinta. Mandata in Sicilia dal partito, Maria conosce l’avvocato Giuseppe Sapienza e inizia una nuova convivenza. Avranno una bambina, la futura scrittrice Goliarda Sapienza, che sulla madre un giorno scriveva: “Come tutte le donne, essendo intelligente dovevi esserlo più di un uomo, coraggioso più di un uomo”. Deve avere coltivato pensieri simili Lidia Poët, torinese, prima donna del Regno a lamentarsi in Giurisprudenza (1881): “Ero nata per studiare e non ho mai fatto altro, in un secolo in cui le donne si occuparono esclusivamente di budini di riso”. Fortuna che era ricca di famiglia, perché, malgrado la laurea con lode, non potè esercitare la professione. Ci furono le maestre perseguitate dal fascismo e le “resistenti”, come la futura senatrice Lina Merlin, capace di salire sui tram con il tritolo sotto il cappotto. Ed era maestra Rosa Maltoni. Religiosissima, sposò un uomo ateo e socialista. Ebbero tre figli. Il primogenito lo chiamarono Benito Amilcare Andrea: Benito come il rivoluzionario messicano Juàrez, Amilcare come l’anarchico Cipriani e Andrea come il socialista Costa. Quando Rosa morì, il Duce ne fece un mito della Patria, l’esempio della perfetta madre e insegnante. Forse esagerava un po', ma che dire? in fondo lui era il figlio.
Claudia Arletti – Italia – Il Venerdì di La Repubblica – 8 dicembre 2017 –

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