Roma. Povera Italia! Aveva vent’anni e
sognava una vita piccola e tranquilla; invece le maldicenze non le lasciarono
scampo. Oggi si parlerebbe di stalking,
ma era il 1886 e la maestra Italia Donati era una delle tante ragazze che, dopo
essersi diplomate con sacrifici immensi, finivano a insegnare in paeselli
remoti, nelle cascine, sui monti, ritrovandosi sottopagate, a condurre vite
monacali; e già questo essere sole e lontane da casa suscitava sempre
malevolenza e sospetto. Per mettere ine alle voci che a Porciano, in Toscana,
la volevano amante del sindaco e l’accusavano di avere abortito. Italia,
disperata, arrivò a implorare il consiglio comunale – all’epoca erano i
municipi ad assumere gli insegnati, previo attestato di moralità – di
organizzare nientedimeno che una visita ginecologica (le fu risposto di no. Non
sopportava più le risatine astiose delle piccole allieve che alle sue spalle la
chiamavano troia e bagascia. Alla fine, indossò il
grembiule rosso della scuola e si lasciò annegare nell’acqua di un mulino. A
Cintolese (Pistoia), dove era nata, le hanno intitolato la scuola elementare,
almeno questo. E ora la sua storia apre il libro di Bruna Bertolo, Maestre
d’Italia. Sono brevi ritratti che ci riportano ai primi anni dell’Unità
d’Italia – quando 17 dei 22 milioni di abitanti firmavano con la croce – e fra
cattedre, grembiulini e fucilate attraversavano il fascismo, la Grande Guerra,
la cacciata degli ebrei dalle scuole e la Resistenza, su su fino al Dopoguerra.
Un’avventura che comincia con l’approvazione della legge Casati e il via
all’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, maschi e femmine. In molti
piccoli centri, dove le casse erano vuote. Fu un disastro: le maestre,
preferite dagli uomini perché tra l’altro le si pagava molto meno, accolte in
stanzacce fatiscenti insegnavano a scrivere e far di conto a 80-90 ragazzini
cenciosi, denutriti, con le mani piene di calli come gli adulti. Nel 1886,
l’anno in cui l’Italia si suicidava, ambientato a Torino usciva Cuore, con la
sua maestrina dalla penna rossa e la voce argentina che par che canti. Ma era
Torino, appunto, mica la Calabria, dove l’analfabetismo fra le donne arrivava
al 90 per cento e morire di parto era un destino facile. C’è da dire che
arrancando e faticando questo esercito di diplomate (nel 1901 già 62mila),
divenne un vero ceto intellettuale. Una di loro era Sibilla Aleramo, che rimase
sbigottita davanti ai tuguri dei “capannari” dell’Agro romano e delle paludi
pontine, e perciò si lanciò a capofitto nella missione di aprire scuole, e poi
Ida Baccini, Maria Montessori, Matilde Serao, Ada Negri. Ne succedevano delle
belle. Nel 1905, il Coitato pro suffragio invitò le donne a iscriversi
provocatoriamente, anche in Sicilia, anche in Sardegna. La spuntarono dieci
maestre di Senigallia: mentre tutte le altre Corti di Appello decidevano in
senso opposto, il magistrato Ludovico Mortara stabilì che lo Statuto Albertino
non faceva distinzione tra i sessi a proposito di diritti e doveri politici e
diede ragione alle ribelli. Grande fu lo sconcerto fra i giuristi e sui
giornali, benché poi siano occorsi solo pochi mesi alla Cassazione per
riportare l’ordine e fare cadere le illusioni. Il vento socialista e anche
quello del femminismo cristiano spingevano per il cambiamento. Ecco allora
figure combattive come quella di Linda Malnati, nata a Milano nel 1855, sospesa
dall’insegnamento per aver partecipato alla sollevazione popolare repressa dal
generale Bava Beccaris (“Il macellaio”). Con la compagna Carlotta Clerici,
volle aprire la sezione femminile alla Camera del lavoro di Milano. Si batté
perché le “stelline” dell’orfanotrofio potessero andare a scuola, si schierò
contro l0insegnamento religioso e per la refezione gratuita. “Noi donne eravamo
in ginocchio, il socialismo ci ha rialzato scrisse prima di morire. Ci sono biografie
che si intrecciano in modo bizzarro. La pavese Maria Giudice, divenuta maestra
a Voghera, si innamora di un agricoltore anarchico con il quale, in dieci anni,
tra un arresto e un comizio, mette al mondo sette figli. Lui muore al fronte,
lasciandola in povertà ma non vinta. Mandata in Sicilia dal partito, Maria
conosce l’avvocato Giuseppe Sapienza e inizia una nuova convivenza. Avranno una
bambina, la futura scrittrice Goliarda Sapienza, che sulla madre un giorno
scriveva: “Come tutte le donne, essendo intelligente dovevi esserlo più di un
uomo, coraggioso più di un uomo”. Deve avere coltivato pensieri simili Lidia Poët,
torinese, prima donna del Regno a lamentarsi in Giurisprudenza (1881): “Ero
nata per studiare e non ho mai fatto altro, in un secolo in cui le donne si
occuparono esclusivamente di budini di riso”. Fortuna che era ricca di
famiglia, perché, malgrado la laurea con lode, non potè esercitare la
professione. Ci furono le maestre perseguitate dal fascismo e le “resistenti”,
come la futura senatrice Lina Merlin, capace di salire sui tram con il tritolo
sotto il cappotto. Ed era maestra Rosa Maltoni. Religiosissima, sposò un uomo
ateo e socialista. Ebbero tre figli. Il primogenito lo chiamarono Benito
Amilcare Andrea: Benito come il rivoluzionario messicano Juàrez, Amilcare come
l’anarchico Cipriani e Andrea come il socialista Costa. Quando Rosa morì, il
Duce ne fece un mito della Patria, l’esempio della perfetta madre e insegnante.
Forse esagerava un po', ma che dire? in fondo lui era il figlio.
Claudia Arletti – Italia – Il Venerdì di La Repubblica
– 8 dicembre 2017 –
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