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lunedì 29 gennaio 2018

Lo Sapevate Che: Quel che resta di D'Annunzio...

Oggi voglio occuparmi del poeta Gabriele D’Annunzio. Ma non soltanto del poeta, bensì uno dei personaggi più noti del periodo che va da fine Ottocento ai primi vent’anni del Novecento, secolo breve ma lunghissimo insieme. Quando a me, scrivo in prosa, ma cerco di dare ad essa un ritmo di musicalità. A voi lettori lascio di trovare quella non dichiarata melodia. Di D’Annunzio si può dire tutto perché tutto cercò di essere: vate, romanziere, drammaturgo, pilota solitario, Capo di bande rivoluzionarie, oratore di folle immense, drogato e seduttore, corruttore e corrotto, mantenuto e a suo modo filosofo di vita. Paul Valéry gli diede la patente del più grande poeta che ci fosse in Europa. Benedetto Croce lo detestò, Ungaretti lo designò Maestro e lui, D’Annunzio, si sentì tale in tutti i luoghi e in tutti gli attimi fuggenti. Amò Carducci e Pascoli, che con lui nulla avevano a che fare. Non perse mai, fu sempre vittorioso. Così pensava lui di se stesso. Eraclito era il suo destino e Narciso il suo dio. Ma oggi nel nuovo secolo e millennio, i pareri sono diversi non solo tra gli eruditi del costume e i poeti di nuove poesie, e anche gli storici e infine i giovani e le donne, i baldanzosi e melanconici. Non l’anno mai conosciuto o l’hanno dimenticato. Un giorno ho avuto una discussione con un mio grande amico e maggior poeta della modernità italiana. Lui non disprezza D’Annunzio ma non l’ammette nel Novecento, lo relega nella “Belle Époque” ottocentesca, non tanto come artista ma piuttosto come una sorta di centauro, metà uomo e metà bestia, cavallo e toro do cartone. Del resto lo stesso D’Annunzio scrisse il “Centauro” che non è una poesia da buttar via. Io sono di famiglia dannunziana: io padre andò a Fiume con lui e spesso quand’ero giovane, mi raccontava alcune avventure di quella spedizione nazionalista e comunque ribelle alla politica giolittiana dell’epoca. Mio padre ricordava i due anni passati a Fiume ma i suoi veri autori erano Dante, Foscolo, Leopardi e Carducci. Con D’Annnzio però aveva vissuto quasi due anni di ribellismo dopo quattro anni di guerra guerreggiata nelle trincee del Grappa e dell’Isonzo. Col poeta erano diventati amici e lui gli spedì nel 1921 un suo piccolo libro dove racconta “la gesta del Carnaro” avventura su tre motoscafi con altrettanti siluri a mano. La spedizione era diretta a Pola dov’era ancorata una nave da guerra austriaca di vecchia data. Quella che il poeta chiamava “la gesta”, cioè l’impresa avventurosa, fu quella di passare sotto le reti di protezione del molo e lanciare da pochi metri di distanza i siluri tornandosene frettolosamente ai loro motoscafi e di sfuggire alle conseguenze del siluramento, il quale riuscì perfettamente e affondò la nave da guerra austriaca. Nella dedica al suddetto libro l’autore ricorda a mio padre che lui durante il viaggio verso il Carnaro cantò a squarciagola la canzone che D’Annunzio aveva composto su quell’avvenimento. Penso che sia opportuno riferire qui la prima strofa e l’ultima di quella Canzone per migliore conoscenza dei lettori di questo mio articolo:
Siamo trenta d’una sorte / e trentuno con la morte. / Eia, l’ultima! / Alalà / Siamo trenta su tre gusci, / su tre tavole di ponte: / secco fegato, cuor duro, / cuoia dure, dura fronte, / mani macchine armi pronte, / e la morte a paro a paro. / Eia, carne del Carnaro! / Alalà! / (…) / Tutti tornano o nessuno. / Se non torna uno dei trenta / torna quella del trentuno, / quella che non ci spaventa, / con in pugno la sementa da gittar nel solco avaro. / Eia, fondo del Quarnaro! / Alalà!
Questo fu D’Annunzio nel bene e nel male. È stato un personaggio in quasi tutti i campi del pensiero artistico-letterario e in altre attività di azione e di politica, a destra e a sinistra purché fosse protagonista. Certo la sua poesia non è quella di Montale o di Quasimodo, i suoi racconti non sono quelli di Moravia, forse in certi casi sono stati anche migliori, il “Piacere” per esempio è meglio degli “indifferenti. Parlo soltanto di scrittori italiani, se andassimo in altri Paesi dell’Occidente la questione sarebbe largamente diversa. Comunque è stato in qualche modo un simbolo della cultura italiana, almeno fino al 1920. Poi, quando si ritirò al Vittoriale sul lago di Garda, fu solo un resido senza testa e molti vizi. Morì nel ’38 e Mussolini fu al funerale, credo contento d’essersi liberato da una persona ormai soltanto imbarazzante e fastidiosissima. La presenza di Mussolini fu però molto più ingombrante della sua e non fastidiosa ma tragica e durò ancora se anni dopo la scomparsa del poeta. Poi è scomparso in modo crudelmente drammatico quando gli italiani, dopo essere stati tutti fascisti, diventarono in 24 ore tutti antifascisti. Il mondo va così e come abbiamo prima ricordato Eraclito e Narciso sono i veri rappresentanti del nostro Paese. L’uno ha chiarito un concetto fondamentale e l’altro un sentimento altrettanto fondamentale.

Eugenio Scalfari – Il Vetro Soffiato – L’Espresso – 21 gennaio 2018 -

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