Oggi voglio occuparmi del poeta Gabriele D’Annunzio. Ma non soltanto
del poeta, bensì uno dei personaggi più noti del periodo che va da fine
Ottocento ai primi vent’anni del Novecento, secolo breve ma lunghissimo
insieme. Quando a me, scrivo in prosa, ma cerco di dare ad essa un ritmo di
musicalità. A voi lettori lascio di trovare quella non dichiarata melodia. Di
D’Annunzio si può dire tutto perché tutto cercò di essere: vate, romanziere,
drammaturgo, pilota solitario, Capo di bande rivoluzionarie, oratore di folle
immense, drogato e seduttore, corruttore e corrotto, mantenuto e a suo modo
filosofo di vita. Paul Valéry gli diede la patente del più grande poeta che ci fosse
in Europa. Benedetto Croce lo detestò, Ungaretti lo designò Maestro e lui,
D’Annunzio, si sentì tale in tutti i luoghi e in tutti gli attimi fuggenti. Amò
Carducci e Pascoli, che con lui nulla avevano a che fare. Non perse mai, fu
sempre vittorioso. Così pensava lui di se stesso. Eraclito era il suo destino e
Narciso il suo dio. Ma oggi nel nuovo secolo e millennio, i pareri sono diversi
non solo tra gli eruditi del costume e i poeti di nuove poesie, e anche gli
storici e infine i giovani e le donne, i baldanzosi e melanconici. Non l’anno
mai conosciuto o l’hanno dimenticato. Un giorno ho avuto una discussione con un mio grande amico e
maggior poeta della modernità italiana. Lui non disprezza D’Annunzio ma non l’ammette
nel Novecento, lo relega nella “Belle Époque” ottocentesca, non tanto come
artista ma piuttosto come una sorta di centauro, metà uomo e metà bestia,
cavallo e toro do cartone. Del resto lo stesso D’Annunzio scrisse il “Centauro”
che non è una poesia da buttar via. Io sono di famiglia dannunziana: io padre
andò a Fiume con lui e spesso quand’ero giovane, mi raccontava alcune avventure
di quella spedizione nazionalista e comunque ribelle alla politica giolittiana
dell’epoca. Mio padre ricordava i due anni passati a Fiume ma i suoi veri
autori erano Dante, Foscolo, Leopardi e Carducci. Con D’Annnzio però aveva
vissuto quasi due anni di ribellismo dopo quattro anni di guerra guerreggiata
nelle trincee del Grappa e dell’Isonzo. Col poeta erano diventati amici e lui
gli spedì nel 1921 un suo piccolo libro dove racconta “la gesta del Carnaro”
avventura su tre motoscafi con altrettanti siluri a mano. La spedizione era
diretta a Pola dov’era ancorata una nave da guerra austriaca di vecchia data.
Quella che il poeta chiamava “la gesta”, cioè l’impresa avventurosa, fu quella
di passare sotto le reti di protezione del molo e lanciare da pochi metri di
distanza i siluri tornandosene frettolosamente ai loro motoscafi e di sfuggire
alle conseguenze del siluramento, il quale riuscì perfettamente e affondò la
nave da guerra austriaca. Nella dedica al suddetto libro l’autore ricorda a mio
padre che lui durante il viaggio verso il Carnaro cantò a squarciagola la
canzone che D’Annunzio aveva composto su quell’avvenimento. Penso che sia
opportuno riferire qui la prima strofa e l’ultima di quella Canzone per
migliore conoscenza dei lettori di questo mio articolo:
Siamo trenta d’una sorte / e trentuno con la morte. / Eia, l’ultima! /
Alalà / Siamo trenta su tre gusci, / su tre tavole di ponte: / secco fegato,
cuor duro, / cuoia dure, dura fronte, / mani macchine armi pronte, / e la morte
a paro a paro. / Eia, carne del Carnaro! / Alalà! / (…) / Tutti tornano o
nessuno. / Se non torna uno dei trenta / torna quella del trentuno, / quella
che non ci spaventa, / con in pugno la sementa da gittar nel solco avaro. /
Eia, fondo del Quarnaro! / Alalà!
Questo fu D’Annunzio nel bene e nel male. È stato un personaggio in
quasi tutti i campi del pensiero artistico-letterario e in altre attività di
azione e di politica, a destra e a sinistra purché fosse protagonista. Certo la
sua poesia non è quella di Montale o di Quasimodo, i suoi racconti non sono
quelli di Moravia, forse in certi casi sono stati anche migliori, il “Piacere”
per esempio è meglio degli “indifferenti. Parlo soltanto di scrittori italiani,
se andassimo in altri Paesi dell’Occidente la questione sarebbe largamente
diversa. Comunque è stato in qualche modo un simbolo della cultura italiana, almeno fino al 1920.
Poi, quando si ritirò al Vittoriale sul lago di Garda, fu solo un resido senza
testa e molti vizi. Morì nel ’38 e Mussolini fu al funerale, credo contento
d’essersi liberato da una persona ormai soltanto imbarazzante e
fastidiosissima. La presenza di Mussolini fu però molto più ingombrante della
sua e non fastidiosa ma tragica e durò ancora se anni dopo la scomparsa del
poeta. Poi è scomparso in modo crudelmente drammatico quando gli italiani, dopo
essere stati tutti fascisti, diventarono in 24 ore tutti antifascisti. Il mondo
va così e come abbiamo prima ricordato Eraclito e Narciso sono i veri
rappresentanti del nostro Paese. L’uno ha chiarito un concetto fondamentale e
l’altro un sentimento altrettanto fondamentale.
Eugenio Scalfari – Il
Vetro Soffiato – L’Espresso – 21 gennaio 2018 -
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