Bella Di Una Bellezza
Nobile, elegante,
esaltata dalle tracce di sofferenza sul volto. Seducente e distante, non per
colpa sua: i carcerieri ne avevano fatto una reclusa. Poi capace di un miracolo
politico, ammirata dal mondo intero. Adesso la Lady crolla sotto il peso delle
accuse. Ha tradito. Non tanto noi, spettatori lontani, ma la parte più debole e
perseguitata del suo popolo. Ho contribuito anch’io a questo culto della
personalità, quindi ho l’obbligo di chiedermi dove ho sbagliato, cosa non ho
capito. Verso di lei, l’omaggio mi sembrava doveroso. Visitai la Birmania per
la prima volta più di dieci anni fa, quando ancora la dittatura era feroce, il
Paese poverissimo, di una miseria quasi sconosciuta in Estremo Oriente. Mi
colpì, in mezzo a tante sofferenze, la delicatezza di un popolo gentile. E
innamorato di una signora d’altri tempi, “invisibile” ai loro occhi, sempre
presente nei loro pensieri. Aung San Suu Kyi era chiusa agli arresti nella
“casa sul lago”, a Rangoon. Tornai al seguito di Barack Obama, due volte,
quando la giunta militare cedeva pezzi di potere alla forza pacifica della
Lady. Abbiamo bisogno di miti, eroi, leggende positive: è umano. Servono a
darci coraggio, ispirarci, aiutarci a migliorare noi stessi. Queste figure
meravigliose sono, troppo spesso, ingigantite dalla nostra immaginazione.
Proiettiamo su di loro, speranze, ideali, valori. Ci rivoltiamo quando gli
eroi, visti da vicino, si rivelano pieni di debolezze, perfino meschini. La
Lady birmana è accusata di avallare le persecuzioni delle minoranze etniche: in
particolare i Rohingya musulmani. Sotto la sua “apparente” leadership,
l’esercito birmano continua a distruggere villaggi Rohingya e a massacrare la
popolazione. Tra buddismo e Islam il conflitto divampa in Myammar come in
Thailandia, con un’escalation di violenza. Il flusso dei profughi verso il
Bangladesh raggiunge quota 400mila. In Occidente il prestigio della Lady è
distrutto, parte un’iniziativa per tentare di revocarle il Nobel della pace
(improbabile). Anche il mito della Birmania gentile, del buddismo pacifista,
viene travolto dalle immagini di milizie religiose che aggrediscono i
musulmani. La “caduta di una déa” mette a nudo anche le nostre (mie) ingenuità.
Nel descrivere Aung San Suu Kyi, passiamo da Madre Teresa di Calcutta a Imelda
Marcos. Nei due estremi ci dev’essere per forza qualche esagerazione. Quanto
era probabile che una donna figlia del fondatore delle forze armate birmane,
poi arrestata e tenuta in isolamento totale, in un Paese tra i più poveri
dell’Asia, sotto una crudele dittatura, fosse un modello di saggezza,
tolleranze equilibrio? Inoltre, quando era agli arresti ricevette un sostegno
discreto ma tenace dai monaci buddisti, molti dei quali sono religiosi e
nazionalisti e considerano l’Islam un pericolo. Il Mistero di Aung San Suu Kyi
forse verrà chiarito solo fra anni, se e quando la situazione politica birmana
uscirà dall’enorme ambiguità che l’avvolge. I più benevoli pensano che la
liberazione e ascesa al potere della Lady sia avvenuta con limiti molto
stringenti: che le sia il fatto ostaggio dei militari; che sconfessare l’esercito
farebbe scattare un nuovo golpe, facendo precipitare la situazione dove l’ho
trovata io dieci anni fa (cioè nel Medioevo). I più severi pensano che Aung San
Suu Kyi d’identifichi in modo acritico con la maggioranza buddista,
condividendone i pregiudizi sui musulmani. Obama volle credere che la Lady
birmana avesse la statura politica e morale di Mandela, il leader sudafricano
che una volta uscito dal carcere proibì le vendette contro la minoranza bianca.
Ma non basta essere vittime per essere santi. E se esiste una carta geografica
della non violenza, è frastagliata, piena di buchi, sotto ogni latitudine.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 7
ottobre 2017 -
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