In Questi Giorni mi trovo in un villaggio tra le
colline. Qui crescono pini e cedri, e ho iniziato a riflettere su quanto sia
bello il mondo e quanto gli esseri umani lo abbiano rovinato. Se solo ci
fossero meno persone…Il sesto giorno ho deciso di inoltrami in una foresta che
costeggia l’autostrada. In giro non c’era un’anima. Mi sentivo leggera e
libera, e lasciavo le braccia dondolare lungo il corpo, fermandomi per
accarezzare le cortecce ruvide degli alberi. Intanto, dialogavo con un amico
immaginario: “Non hai paura di stare qui da sola?”. Gli ho risposto di no.
Anzi, nella foresta mi sentivo al sicuro. E in ogni caso, tra una pantera e un
gruppo di sconosciuti, non avrei saputo dire quale mi avrebbe spaventata di
più. Il sentiero era scivoloso. Aveva piovuto e il terreno era coperto di aghi
non si scorgeva più. Eppure ero tranquilla. Pensavo che prima o poi mi sarei
imbattuta in una casetta, e avrei ritrovato la via del ritorno. Alla fine sono
riuscita a intravedere nuovamente l’autostrada, ma il sentiero per raggiungerla
era sconnesso e accidentato. Ho fatto due passi e sono quasi scivolata. Ho
riacquistato l’equilibrio mancavano solo tre metri al ciglio della strada.
Ancora due passi e sono caduta, slogandomi una caviglia. A quel punto ho
iniziato a preoccuparmi seriamente. Ho preso il telefonino per contattare
l’albergo anche se non avrei saputo esattamente cosa dire. Dove mi trovavo? Poi
mi sono resa conto che non cera campo, e che quella che avevo davanti non era
l’autostrada, bensì un’arteria secondaria che conduceva a qualche villaggio.
Nessun autobus e nessuna auto sarebbero mai passati. C’era da stare allegra,
rischiavo di rimanere lì tutta la notte, ed ero già stata messa in guardia: da
quelle pari, con il buio, si aggiravano le pantere. In quel momento desideravo,
più di qualsiasi altra cosa, di imbattermi in un essere umano. Chiunque. A dire
il vero, avrei preferito un uomo: spesso hanno con sé un telefono o sono in
auto. Fino ad allora non avevo mai visto donne al volante da quelle parti. Ho
iniziato a riflettere: tante persone rendono possibile la mia sopravvivenza.
Diecimila anni di progresso ci hanno intorpiditi, facendoci dimenticare le
insidie di Madre Natura: le colline che si coprono di ghiaccio, gli oceani, le
alluvioni, le creature che hanno denti, artigli e tanta fame. Ciò che ci tiene
in vita sono le menti degli umani. La lana che tessiamo, il carbone che
estraiamo, le auto che fabbrichiamo, gli ospedali che ci rimettono in sesto. È
tutta opera di uomini e donne. Soprattutto degli uomini. Me ne stavo seduta lì,
riflettendo sulla sofferenza che ci travolge al punto da farci dimenticare che,
se esistiamo è grazie al prossimo, e non a dispetto del prossimo, Il mio
risentimento per l’umanità ha iniziato a dissolversi, e mi sono messa a pregare
che qualcuno passasse. È arrivata una jeep. Ho fatto cenno al conducente, che
era solo, senza passeggeri. Gli ho spiegato la situazione, e gli ho chiesto di
dirmi dove ci trovavamo. Lui sembrava esitante: ero una brava o una cattiva
persona? Forse provava diffidenza di fronte a una sconosciuta, a una donna
sola? Pensava fossi un miraggio? Una strega? Alla fine ha fatto cenno di sì col
capo, e mi ha portato in albergo. Gli ho offerto del denaro, che ha rifiutato.
Alle mie insistenze, ha detto: “Non c’è problema. Stavo andando in questa
direzione comunque”. Ho unito le mani in gesto di ringraziamento, ma il dolore
che provavo mi ha fatto dimenticare di chiedergli il nome. Ora mi piacerebbe
conoscerlo. Gli sono riconoscente, e non solo per avermi riportata al sicuro,
ma per aver eliminato dal mio cuore la spina velenosa della diffidenza. E per
avere fatto ciò su cui il mondo si basa: essersi comportato umanamente con un
altro essere umano.
(Traduzione di Marzia Porta)
Annie Zaidi – Opinioni – Donna di La Repubblica -16 dicembre
2017 -
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