Il figlio George era arrivato al sesto compleanno.
In mancanza di telefonini, tablet, videogame, difficili da trovare in
quell’anno 1738, il signor Augustine Washington, benestante della Virginia,
decise di regalargli una piccola accetta. Il bambino ne fu felice. Anche
troppo, visto che procedette immediatamente a usarla su un albero di ciliegio
al quale il papà teneva moltissimo, Naturalmente, il genitore scoprì lo scempio
del suo adorato alberello, e decise di mettere alla prova il figlioletto. “Chi
è stato?”, gli chiese, in redingote e parrucca. “Padre”, gli rispose contrito
il figlio, “non posso dirti bugie. Sono stato io”. Il genitore, anziché
punirlo, lo abbracciò. “Dell’albero m’importa niente, ma la tua onestà è un
grande regalo”. Questa storia di George Washington e dell’alberello di ciliegio
sarebbe divenuta, generazione dopo generazione, un apologo, trapanato fino allo
stordimento dai genitori nella testa dei figli. L’onestà manifestata dal futuro
padre degli Stati Uniti d’America e primo presidente era la dote fondamentale
sulla quale costruire l’edificio di una vita di successo. Peccato che la
parabola sia falsa, come sembra essere falsa anche la morale. I bambini che
dicono le bugie (e cominciano a dirle quando hanno appena due anni) risultano,
studio dopo studio, ricerca dopo ricerca, essere più intelligenti e destinati a
migliori risultati da adulti di quelli che non sanno mentire. Secondo gli
psicologi dell’infanzia e del comportamento che hanno risposto (si spera non
mentendo) a un’inchiesta del New York Times, i bambini che soffrono di disturbi
di personalità faticano a dire bugie, perché la bugia richiede agilità mentale
e intuizione. Il test classico è quello del giocattolo nella scatola. Bambini
di due anni vengono lasciati soli nella propria stanza con una scatola dentro
la quale, gli viene detto, c’è un giocattolo nuovo. Se non apriranno la scatola
per sbirciare dentro, sarà loro. Altrimenti, niente. La quasi totalità, quando
non pensa di essere visto, apre la scatola, guarda e la richiude. E poi dice di
non averla aperta. C’è una lunga e complicata spiegazione del perché i piccoli
bugiardi risultino più intelligenti dei coetanei sinceri; e la naturale
tendenza a contare le balle non va affatto incoraggiata. Tutti i genitori
implorano i pargoli di essere onesti, spiegando che, come Augustine Washington,
saranno orgogliosi di un figlio o di una figlia che dicano la verità,
probabilmente dimenticando tutte le fandonie che loro stessi da piccoli,
servirono a padri e madri. E a aggiungono che si metteranno nei guai non tanto
per quello che hanno fatto, ma per quello che faranno per nasconderlo, secondo
un principio che anche le personalità politiche, impantanate in scandali
gonfiate dalle proprie spesso patetiche panzane, farebbero bene a ricordare. Il
punto chiave delle ricerche condotte per decenni dagli psicologi dell’infanzia
è: va riconosciuto che tutti noi portiamo il “gene” della bugia nei cromosomi,
e raccontarne da piccoli non è un sintomo di future catastrofi né di carriera
in politica. I bambini sono bravissimi a
mentire, e i più bravi dimostrano capacità verbali superiori agli altri.
Soltanto una piccolissima percentuale di grandi, genitori e no, riesce a individuare
il bugiardello, se non si presenta con la bocca sporca di cioccolato o le dita
appiccicose di marmellata. Il paradosso è che tutti noi dovremmo sperare che i
nostri figli siano abilissimi nel mentire, ma capaci di non farlo. E se proprio
non ci riescono, pazienza. Da grandi, potranno sempre diventare giornalisti.
Vittorio
Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 20 gennaio 2018 -
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