The coolest monkey in the jungle è lo slogan più costoso nella storia
della pubblicità. La scritta sulla felpa H&M fatta indossare a un bambino
nero ha provocato una rivolta dei social, boicottaggi dei prodotti di magazzini
in Sudafrica. La H&M si è inerpicata dapprima su impervi sentieri di goffe
giustificazioni, poi ha dovuto ammettere l’errore. La storia raccontata in
dettaglio da Pietro Veronese (nella sua rubrica) non serve qui tanto a
denunciare il razzismo ormai diffuso ma a ragionare su come funzionano (male)
le catene di comando nell’epoca del narcisismo trionfante. Può apparire
incredibile, in effetti, che in una campagna globale di una multinazionale,
pianificata da eserciti di esperti e sottoposta a una fila di verifiche, non si
sia levata una sola persona intelligente, in uno dei tanti passaggi, per
segnalare non soltanto l’immoralità di quel messaggio, ma la profonda e
controproducente imbecillità rispetto all’obiettivo economico. Il punto è che
in una società sempre più lideristica il contraddire in pubblico, le idee del
capo, per quanto stupide, non giova alla carriera. Ho assistito nel corso degli
anni a un progressivo svuotamento delle riunioni di redazione, come dei vertici
aziendali o di partito, degli elementi più creativi. Alla fine rimangono
soltanto yes men. Se il capo è un
genio assoluto, può funzionare, sia pure non sempre. Se non lo è, nella
stragrande maggioranza dei casi, si corre verso la catastrofe. Un certo grado
di narcisismo ha sempre condizionato l’efficacia delle catene di comando. Ma
nella società dello spettacolo, dove tutte le organizzazioni sono riassunte
nella figura di un attore protagonista, il narcisismo del capo può divenire
fatale. Alcuni grandi capitani ne sono consapevoli. Steve Jobs e Bill Gates,
Jeff Bezos e Mark Zuckerberg e Larry Page incarnano oggi il mito del demiurgo
industriale, ma hanno inventato personalmente pochissimo. Il loro genio è stato
di attrarre e sfruttare l’altrui talento, ormai emarginato e sotto utilizzato
dalle burocrazie delle vecchie multinazionali. In politica, dove ormai i leader
sono puri intrattenitori manovrati da altri poteri, quindi ancora più deboli e
narcisi, accade più spesso che i capi finiscano prigionieri del proprio ego
arroventato e reagiscano con rabbia di fronte a chi osa contraddire le proprie
fantasie. È il caso tragico, per i destini del mondo, dell’ultimo Donald Trump.
Ed è il caso comico dei molti galletti che popolano la scena italiana,
condannati a circondarsi di plaudenti cortigiani che il giorno dopo
l’inevitabile disfatta serviranno alla tavola del nuovo vincitore.
Curzio
Maltese – Contromano – Il Venerdì di La Repubblica – 26 gennaio 2018 -
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