Sembra Che Tutto, dalle antiche dottrine orientali alla psicologia occidentale
moderna – come pure alcuni suoi scritti e molte sue affermazioni – conduca a
una sola verità, e cioè che ‘Io, il nostro caro Io, non è altro che
un’illusione per sentirci importanti, per non impazzire nell’autocoscienza di
dovere morir senza senso. In realtà, come lei stesso ribadisce spesso, Freud ha
dimostrato che l’Io è un pilota illusorio, perché a comandare, in realtà, è
sempre l’inconscio irrazionale, mentre l’Io cosciente, razionalizzando a
posteriori le cause pulsionali dell’inconscio, fa finta di comandare, di
decidere, di scegliere e di agire razionalmente. Im poche parole l’Io è un
pallone gonfiato e, insieme, un pallonaro. Non facciamo che raccontarci storie,
cioè interpretazioni soggettive della realtà, in cui abbiamo ragione. Non
facciamo che raccontarci bugie e crederci pure. Questo sembra essere l’unico
modo per darci un senso, per sentirci importanti, speciali, e quindi per non
impazzire di fronte alla coscienza della nostra irrilevanza cosmica e del
nostro destino mortale. Essendo dunque l’Io solo una costruzione psichica, un
mero mediatore che si traveste da re, essendo in definitiva una menzogna,
desidera senza sosta il riconoscimento degli altri Io, per poter continuare ad
illudersi di essere “vero”, perché soltanto altre bugie possono essere in grado
di confermare una menzogna. La lettera che mi ha portato a scriverle è quella
di Katia Bernuzzi (n.2061) che diceva: “Mi pare che il mercato comprenda prima
e meglio di molte altre istituzioni certi tipi di funzionamento (inconscio)”.
Certo! Perché tutto quello che studia e scopre la psicologia dove finisce se
non nel marketing? Quindi, il mercato sa bene che per indurre il consumatore ad
acquisti inutili deve parlare il linguaggio simbolico dell’inconscio, deve
riferirsi a chi comanda davvero l’Io, e cioè al lato pulsionale ed emotivo, non
a quello cosciente e razionale. A ragione arriva sempre dopo, la si
ricostruisce sempre a posteriori, con comodo.
Le Cose Che lei sostiene trovano conferma nel
pensiero di Freud il quale afferma che: “l’Io è sollecitato da un inconscio
pulsionale che lavora per l’economia della specie, fornendo ai singoli
individui la sessualità per la procreazione e l’aggressività per la difesa
della prole. Dopo di che la specie destina i singoli individui alla morte,
perché la sua vita dipende dal ricambio generazionale. Di fronte a questa
crudeltà innocente della specie, o se si preferisce, della natura. Jean Paul
Sartre scrive che, di fronte alla morte: “E’ la stessa cosa aver guidato popoli
o essersi ubriacati di solitudine”. Ma oltre all’inconscio pulsionale, l’Io è
condizionato anche da un inconscio sociale, che lo obbliga a tenere a freno le
sollecitazioni pulsionali per garantire una convivenza sociale, la quale è
possibile solo con un controllo generalizzato delle pulsioni sessuali e
aggressive. Per questo, scrive Freud, l’Io, oltre a non essere padrone in casa
propria è anche: “un precipitato di difese”. Naturalmente queste difese
limitano la nostra felicità, che per Freud consiste nella piena esplicazione
delle pulsioni. E a questo proposito scrive: Di fatto l’uomo primordiale stava
meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua
sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha
barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza”.
Barcamenandosi tra contenimento dell’inconscio pulsionale e le richieste
dell’inconscio sociale, all’Io resta poco spazio espressivo nella totalità
psichica dominata dai due inconsci, e soprattutto poca libertà stante il loro
carattere cogente. Eppure noi enfatizziamo il nostro Io e, rimuoviamo il fatto
di essere dei semplici funzionari della specie, viviamo a partire dai nostri
progetti, dalle mete che vogliamo raggiungere, dai nostri ideali, dai nostri
sogni, probabilmente, come dice lei, per distrarsi dal pensiero della morte.
Anche se Freud ci dice che se pure la nostra mente “sa” che dobbiamo morire, la
nostra psiche non “sente” la propria morte, come testimonia quel paziente che
in analisi comunica al dott. Freud: “Con mia moglie ho fatto un patto: chi di
noi due muore prima, io vado a Parigi”. Se durante la vita interiorizzassimo
l’inevitabilità della nostra morte, condurremmo un’esistenza che non si affanna
spasmodicamente nell’accumulare denaro o nell’acquisire potere. E quando giunge
la nostra ora non avremmo il carico di angoscia tipico di chi non ha mai
pensato alla propria morte. Perché in quel momento ciò di cui davvero ci si
angoscia non è tanto l’addio al nostro Io, del quale, nella nostra vita, dopo averlo
tanto enfatizzato, ci siamo anche innamorati.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 13 gennaio
2018
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