Sono Sdraiata Supina sopra un materassino azzurro, i palmi
delle mani verso l’altro, le gambe leggermente divaricate; i piedi nudi,
abbandonati, guardano uno verso destra e l’altro verso sinistra. Ho gli occhi
chiusi e respiro con il naso. Stacco la lingua dal palato e mi accorgo che le
due arcate dei denti non si tocchino, Appoggiata sul petto ho una maglietta a
righe di cotone, a mo’ di coperta. Sto piuttosto bene. Una voce lontana e
suadente mi invita a rilassarmi. E d’un tratto resto da sola. Scompaiono il
pavimento, le pareti, il soffitto, i rumori, le tizie intorno a me e il loro inquietante
respiro di mantice. Galleggio in un non luogo. Mollo ogni ormeggio e divento
zattera alla deriva. Mi piace, qui. Vorrei abitarci ogni tanto per un po',
magari il venerdì, all’ora di pranzo. Sono le due di pomeriggio. Due dei miei
figli stanno tornando da scuola e a casa non c’è niente da mangiare. Avrei
dovuto preparare qualcosa. Me ne sono dimenticata. Avrei dovuto comprare il
latte e il pane. E invece no. Il grande aveva la verifica di verbi latini. Ieri
sera non si ricordava l’indicativo imperfetto passivo di legere (“lege…”.”…bas!”.
“No! Legebar, Legebaris, Lege…”. “Madre, dammi tregua. Il latino mi asciuga”).
Avrò spento il fuoco sotto il caffè prima di uscire? Non sono più una libera
zattera- Sono una cozza aggrappata allo scoglio. Un grumo di pensieri e di
tensioni. Che ci faccio sdraiata per terra nella posizione del cadavere alle 14
di un giorno feriale? La magia è andata in frantumi, la zattera è colata a
picco e io riemergo dalla mia personale pozzanghera settimanale di beatitudine
annaspando. Mi rimetto seduta, con uno scatto da marionetta. “Sto perdendo
troppo tempo”, mi dico, con lo sguardo allucinato e la tachicardia. Ho fallito
anche questa volta. Spero solo che l’insegnante non se ne sia accorta. Andrà
meglio la prossima. Vado a rivestirmi e, dilaniata tra senso di sollievo e di
fallimento, salgo sulla bicicletta e pedalo forsennata verso le mille lacune
della mia quotidianità. Non è questo il giusto approccio allo yoga, ma devo
procedere per gradi. Proprio durante una lezione ho avuto l’agghiacciante
epifania: non sono più capace di perdere tempo. Al bar apro la bustina di
zucchero prima ancora che si materializzi il caffè; in coda alla posta, mentre
gli altri chiacchierano e socializzano, io evado le e-mail arretrate; ascolto
gli audiolibri a velocità raddoppiata per fare prima; quando interrogo mio
figlio piccolo sulle tabelline, contemporaneamente cucino o mi faccio la
ceretta. Le rare volte in cui faccio conversazione al telefono fisso, ne
approfitto per riordinare il tavolo o cucire un bottone, o controllare le
previsioni del tempo. Non sono capace di fermarmi e godermi l’attimo. È una
nevrosi, una malattia, una condanna, una tara probabilmente legata ai miei
natali milanesi. È l’involuzione della specie. Mi detesto quando sono colta
dall’horror vacui e mi affanno a riempirlo, perché conosco l’inestimabile
valore del tempo perso e ammiro chi sa goderselo. Per questo pratico yoga, da
qualche mese, ogni venerdì all’ora di pranzo, anche se non mi somiglia, anche
se sono rigida e resistente. Perché devo imparare a lasciarmi andare, ad
accomodarmi su quella zattera senza ribaltarmi per l’ansia. Perché chiudere gli
occhi e andare alla deriva fa un gran bene. Perché così forse un giorno
imparerò a camminare piano, a chiacchierare con la signora in coda allo
sportello in banca e ad ascoltare senza spazientirmi la storia del suo cane che
mangia solo arrosto, a ripassare la tabellina del sette liberando i pensieri e
fermando le mani. E non dovrò neppure aspettare il venerdì per sdraiarmi nella
posizione del cadavere e sentirmi libera e felice.
Claudia de Lillo – Opinioni - Donna di La Repubblica – 20
gennaio 2018 -
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