I Chiedono Interviste pensando di fare domande armati di
bloc-notes, registratori, in territorio neutro, protetti dal ruolo. Ma se si
chiede un’intervista a Tino Sehgal la prima risposta è: no, “perché lui non dà
interviste”. La seconda è: forse, “il signor Sehgal potrebbe fare due
chiacchiere con lei se è disposta a entrare nel progetto assistendo a
un’audizione”. Perché no? Sehgal è più che un performer, più che un artista, Un
coreografo, si potrebbe dire, capace di mettere in scena emozioni con cui
travolgere gli astanti. Non c’è pubblico. Non ci sono attori. Dall’una e
dall’altra parte ci sono persone che coinvolgono altre persone. Ci sono suoni,
gesti, voci corpi che si muovono secondo regole invisibili. Così fu al Guggenheim
di New York, lungo la rampa di Frank Lloyd Weight, dove un bambino ti prendeva
per mano chiedendo “cos’è il progresso? “e poi ti lasciava a un ragazzo che
faceva altre domande, e dal ragazzo all’adulto e dall’adulto al vecchio, tra
interrogativi, risposte e racconti in un viaggio nel tempo che rotolava via,
crescendo insieme alla spirale. Così fu nella Tate invasa da 70 story-teller
che incantavano ogni visitatore, con le loro novelle, come tanti pifferai di
Hamelin. Così alla Documenta di Kassel del 2013 dove, nella Casa degli Ugonotti
resa buia come la pece, una minacciosa ventina di performer circondava chiunque
entrasse cantando, battendo le mani, suonando gospel, vicino sempre più vicino…
Non c’è territorio neutro accanto a questo uomo complesso come la sua origine, che lo vede
nascere nel 1976 a Londra da padre angloindiano e madre tedesca, crescere a
Düsseldorf, e studiare, tra Berlino e Parigi, economia, arte concettuale,
danza. Non c’è ruolo che ci protegga. Tant’è che, all’improvviso, invece di far
domande, si comincia a riceverle, seduti in cerchio con una decina di
sconosciuti d’ogni età e provenienza a raccontare cose di so, come in una
riunione di alcolisti anonimi. È andata così a Torino, nell’immenso,
affascinante vuoto delle OGR, dove tra poco, sul binario 1 del monumento di
archeologia industriale nato per riparare locomotive di treni, Sehgal metterà
in scena la sua più importante personale italiana (2 febbraio – 18 marzo, a
cura di Luca Cerizza). Stesso luogo dove lo scorso novembre, come da
comunicato, “reclutava volontari vivaci, ironici, aperti e sensibili, di tutte
le età, pronti a conversare di poesia, politica e vita quotidiana. Non è
richiesta alcuna specifica qualifica professionale, né alcuna esperienza in
ambito artistico e teatrale. È necessario però essere disposto a mettersi in
gioco. Chi scrive in realtà non l’aveva scelto di mettersi in gioco. Eppure
eccoci lì a rispondere a eccentrici quesiti: “cosa tifa davvero sentire bene?”.
“ Racconta di una volta in cui hai capito di essere davvero arrivato”. “Cosa ti
rende insoddisfatto di te stesso?”. Il gruppo, rispondendo, prende forma. Gli
uomini parlano di azioni, le donne di sentimenti. I giovani di insicurezze, i
più vecchi di nostalgie. A condurre la danza è la producer dell’artista,
signora gentile dai lunghi capelli. Con la voce pacata con cui pone bizzarre
domande, specifica le regole: “L’evento”, dice, “durerà 6 settimane. Sarà diviso
in turni dalle 4 alle 7 ore alla settimana e verrà retribuito su base oraria”.
Poi, con la stessa ferma gentilezza, invita tutti a spostarsi e a disegnare
mentalmente un triangolo scegliendo due persone che non sanno di essere scelte
e che a loro volta ne hanno scelto altre due. Fatto questo, bisogna muoversi
rapidi. Un’improvvisa coreografia disegna lo spazio, ognuno rincorre i vertici
di una figura geometrica che è solo nella testa ma fa muovere veloci le gambe e
lega fisicamente e mentalmente l’intero gruppo. Energia, la chiama lui. Che va
oltre l’arte. “È la differenza che c’è fra un paesaggio e il tempo
atmosferico”, spiega poi, conversando su un divanetto. “Il paesaggio è l’opera
fissa nel tempo, ma a formarlo e trasformarlo c’è l’atmosfera: un tessuto di
luce, vento, pioggia, sole, mutazione continua. E io cerco questo”. Il vento di uno sciame in movimento soffierà nelle aule delle ex Officine di Porta Susa: 50
interpreti sopravvissuti alle audizioni sono pronto. Riporteranno in scena
famosi lavori di Sehgal come Kiss,
dove prendono vita celebri luci della storia dell’arte, da Rodin a Hayez. E si
scateneranno nelle opere recenti (These
Association), dove dominano l’impatto fisico ed emotivo, le interazioni.
Nulla di già visto, nulla di nuovo. “Lavoro con elementi che si ripropongono e
si ricompongono. Non mi chiedo se quello che sto facendo è nuovo, ma se è
giusto per quello spazio, per le persone che arriveranno. Cerco di formare
sculture con un elemento complesso, sensibile e flessibile quale è la natura
umana. E’ come in cucina, non è la novità del piatto ma la sua qualità, quello
che conta. Per questo mi chiedo: di cosa ha bisogno chi arriverà qui un
mercoledì pomeriggio, dopo il lavoro, o un sabato mattina nel suo giorno di
vacanza? Quale energia trasmettere? Voglio creare la giusta esperienza per
farvi riflettere sula vita, lo spazio che vi circonda, su che cosa significhi
muoversi, parlare, cantare”. Giusto il tempo di una performance, per farci
diventare scultura viva di corpi ed emozioni. Capace di travolgere ruoli,
inibizioni, professioni, bloc-notes, registratori, interviste….
Alessandra
Mammì – Incontri D’Arte – Donna di La Repubblica – 20 gennaio 2018 -
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