La Professione Di avvocato penalista mi ha portato
spesso a occuparmi di extracomunitari che costituiscono, ormai, due terzi dei
detenuti del carcere di Verona. Il numero non dipende tanto o solo dai reati di
cui sono accusati quanto all’impossibità, per mancanza di prospettive di lavoro
e di abitazione, di poter ottenere i benefici previsti dall’ordinamento
penitenziario. Ho spesso tentato di instaurare con loro rapporti che andassero
al di là del dialogo strettamente professionale. È stata un esperienza che ha
rafforzato la mia ripugnanza per il razzismo e per gli atteggiamenti che con il
razzismo confinano. Mi sono sempre chiesto come sia possibile basare un
rapporto umano sulla differenza di colore della pelle o sulla nazionalità e non
sulle affinità di intelligenza, di sensibilità, di moralità, di comunicativa. A
Verona vivono migliaia di extracomunitari, il Centro Studi Immigrazione
(C.E.S.T.I.M.) è in contatto con centinaia di persone, il Centro Salute Immigrati
(C.E.S.A.I.M.) offre cure specialistiche gratuite agli immigrati, i sindacati
si occupano della salvaguardia dei diritti sul lavoro. Quello che manca è
l’incontro finalizzato alla reciproca conoscenza tra i veronesi e gli
extracomunitari. Non occorrono grandi strutture: una sede di circoscrizione o
di partito, una sala parrocchiale, l’appartamento di qualcuno; dallo scambio di
esperienze, dalle teorie di vita può nascere una visione diversa, non
prevenuta, del prossimo che si riteneva lontano, quando non pericoloso o
addirittura nemico.
Avv.
Guariente Guarienti guariente.guarienti@libero.it
Se È Vero, Come riferisce
il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), che noi occidentali,
per mantenere il nostro attuale livello di vita, abbiamo bisogno dell’80% delle
risorse della terra, è ovvio che l’emancipazione dei popoli non può conciliarsi
con la permanenza del modello di vita occidentale, e, prima che questa
contraddizione esploda (non voglio immaginare con quali terribili guerre), è
ovvio che gli affamai della terra facciano ressa alla porta dell’Occidente. Ne
consegue che il fenomeno migratorio non è un evento episodico che possiamo
arrestare, ma solo l’inizio di una storia che, senza interruzioni, caratterizzerà
gli anni a venire. Questa è la prima cosa da capire per sapere che fare. Le
opere assistenziali che lei cita, messe in atto dai centri studi, centri salute
e sindacati, per ridurre le sofferenze e le ingiustizie che spesso subiscono
gli immigrati che giungono da noi, per quanto lodevoli e meritevoli, non
affrontano, come lei giustamente osserva, il problema dell’accettazione della
diversità, che è l’unica via percorribile per abbattere i muri della diffidenza
e dell’estraneità che non consentono una pacifica convivenza. Infatti, mettendo
a fuoco solo le sofferenze e le ingiustizie, si finisce col ridurre il mondo
della diversità a un problema di assistenza, quando invece il confronto con la
diversità ci obbliga a riflettere, quando non a metter in gioco le rispettive
identità. La nostra cultura e le nostre leggi tendono all’ “integrazione”, che
tradotto significa che il diverso deve diventare come uno di noi, dove è
evidente che quel che si nega è proprio l’accettazione della diversità e
l’assunzione del nostro modo di vivere e dei nostri costumi come la vera misura
dell’umano. Viene qui in mente il monito che Rousseau rivolgeva agli
illuministi: “Essi confondono l’uomo di natura con gli uomini che hanno sotto
gli occhi. Sanno assai bene cos’è un borghese di Londra e di Parigi, ma non
sapranno mai cos’è un uomo”. Oltre all’integrazione, che priva l’altro della
sua alterità e quindi del ratto tipico della sua identità, da rifiutare è anche
l’ “assimilazione”, la quale riconosce che l’altro è un uomo come noi, ma
proprio per questo esige che si elevi al nostro modo di vivere, sottintendendo
ancora una volta che il nostro modo di vivere è la misura dell’umano. Se
l’accettazione della diversità è la condizione essenziale per una pacifica e
proficua convivenza. L’unica via da percorrere è quella del “reciproco
riconoscimento” che, come scrivono Carmelo Vigna e Stefano Zamagni in Multiculturalismo e identità (Vita e
Pensieri), oggi comporta che sia gli occidentali provino a rinunciare alla loro
“identità originaria” per una “identità utopica”, da intendersi non come un
sogno, ma come un lavoro che consente a chi lo compie di scoprire, sotto la
propria identità elaborata all’interno della propria particolare cultura, le
possibilità che, in quell’identità, ancora non hanno trovato espressione, e che
possono essere svelate proprio dal confronto con l’altro da sé. Del resto, già
lo ricordava Nietzsche: “L’uomo è un animale non ancora stabilizzato”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 23
dicembre 2017 -
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