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sabato 30 dicembre 2017

Lo Sapevate Che: Quando abbatteremo i muri della diffidenza e dell'estraneità?...

La Professione Di avvocato penalista mi ha portato spesso a occuparmi di extracomunitari che costituiscono, ormai, due terzi dei detenuti del carcere di Verona. Il numero non dipende tanto o solo dai reati di cui sono accusati quanto all’impossibità, per mancanza di prospettive di lavoro e di abitazione, di poter ottenere i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Ho spesso tentato di instaurare con loro rapporti che andassero al di là del dialogo strettamente professionale. È stata un esperienza che ha rafforzato la mia ripugnanza per il razzismo e per gli atteggiamenti che con il razzismo confinano. Mi sono sempre chiesto come sia possibile basare un rapporto umano sulla differenza di colore della pelle o sulla nazionalità e non sulle affinità di intelligenza, di sensibilità, di moralità, di comunicativa. A Verona vivono migliaia di extracomunitari, il Centro Studi Immigrazione (C.E.S.T.I.M.) è in contatto con centinaia di persone, il Centro Salute Immigrati (C.E.S.A.I.M.) offre cure specialistiche gratuite agli immigrati, i sindacati si occupano della salvaguardia dei diritti sul lavoro. Quello che manca è l’incontro finalizzato alla reciproca conoscenza tra i veronesi e gli extracomunitari. Non occorrono grandi strutture: una sede di circoscrizione o di partito, una sala parrocchiale, l’appartamento di qualcuno; dallo scambio di esperienze, dalle teorie di vita può nascere una visione diversa, non prevenuta, del prossimo che si riteneva lontano, quando non pericoloso o addirittura nemico.                                                           Avv. Guariente Guarienti guariente.guarienti@libero.it

Se È Vero, Come riferisce il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), che noi occidentali, per mantenere il nostro attuale livello di vita, abbiamo bisogno dell’80% delle risorse della terra, è ovvio che l’emancipazione dei popoli non può conciliarsi con la permanenza del modello di vita occidentale, e, prima che questa contraddizione esploda (non voglio immaginare con quali terribili guerre), è ovvio che gli affamai della terra facciano ressa alla porta dell’Occidente. Ne consegue che il fenomeno migratorio non è un evento episodico che possiamo arrestare, ma solo l’inizio di una storia che, senza interruzioni, caratterizzerà gli anni a venire. Questa è la prima cosa da capire per sapere che fare. Le opere assistenziali che lei cita, messe in atto dai centri studi, centri salute e sindacati, per ridurre le sofferenze e le ingiustizie che spesso subiscono gli immigrati che giungono da noi, per quanto lodevoli e meritevoli, non affrontano, come lei giustamente osserva, il problema dell’accettazione della diversità, che è l’unica via percorribile per abbattere i muri della diffidenza e dell’estraneità che non consentono una pacifica convivenza. Infatti, mettendo a fuoco solo le sofferenze e le ingiustizie, si finisce col ridurre il mondo della diversità a un problema di assistenza, quando invece il confronto con la diversità ci obbliga a riflettere, quando non a metter in gioco le rispettive identità. La nostra cultura e le nostre leggi tendono all’ “integrazione”, che tradotto significa che il diverso deve diventare come uno di noi, dove è evidente che quel che si nega è proprio l’accettazione della diversità e l’assunzione del nostro modo di vivere e dei nostri costumi come la vera misura dell’umano. Viene qui in mente il monito che Rousseau rivolgeva agli illuministi: “Essi confondono l’uomo di natura con gli uomini che hanno sotto gli occhi. Sanno assai bene cos’è un borghese di Londra e di Parigi, ma non sapranno mai cos’è un uomo”. Oltre all’integrazione, che priva l’altro della sua alterità e quindi del ratto tipico della sua identità, da rifiutare è anche l’ “assimilazione”, la quale riconosce che l’altro è un uomo come noi, ma proprio per questo esige che si elevi al nostro modo di vivere, sottintendendo ancora una volta che il nostro modo di vivere è la misura dell’umano. Se l’accettazione della diversità è la condizione essenziale per una pacifica e proficua convivenza. L’unica via da percorrere è quella del “reciproco riconoscimento” che, come scrivono Carmelo Vigna e Stefano Zamagni in Multiculturalismo e identità (Vita e Pensieri), oggi comporta che sia gli occidentali provino a rinunciare alla loro “identità originaria” per una “identità utopica”, da intendersi non come un sogno, ma come un lavoro che consente a chi lo compie di scoprire, sotto la propria identità elaborata all’interno della propria particolare cultura, le possibilità che, in quell’identità, ancora non hanno trovato espressione, e che possono essere svelate proprio dal confronto con l’altro da sé. Del resto, già lo ricordava Nietzsche: “L’uomo è un animale non ancora stabilizzato”.

umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 23 dicembre 2017 -

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