Legate al tetto delle automobili come barbarici
trofei di cacci, milioni di creature verdi cominciano in questi giorni di
dicembre il viaggio verso e case dove vivranno la loro ultima stagione. Sono i
40 milioni di conifere che diventeranno alberi di Natale, pini e abeti che,
coperti di addobbi più o meno elaborati secondo i mezzi celebreranno la più
pagana delle festività religiose. Un miliardo di dollari saranno spesi per
acquistarle dai coltivatori di alberi destinati al Natale, da tempo non più
tagliati da foreste naturali esistenti, ma “allevati” in piantagioni per
allietare le attese dei bambini ed esasperare chi poi dovrà ripulire il
pavimento dal tappeto di aghi che spargono. In nessun’altra nazione si
comperano tanti alberi di Natale come negli Stati Uniti, dai ciclopi di 25
metri che troneggiano nel Rockefeller Center di New York, o nella spianata
davanti alla Casa Bianca acceso da un presidenziale comando, all’alberino nano
non più alto di un paio di spanne che anche quest’anno si illuminerà nella mia
casa, con la solita scusa dei bambini. Sarà un mini albero frutto non di
avarizia – un sontuoso abete norvegese non costa più di 50 dollari – ma figlio
di uno di quei compromessi coniugali che mantengono la pace di coppia e salvano
i matrimoni: fra la signora, grande tifosa degli alberi artificiali, quelli che
si aprono e ripongono come ombrelli, e il signore che nella sua megalomania
sogna colossi lussureggianti di tre metri ma poi si guarderebbe bene dallo
spazzare il pavimento dagli aghi. Ma all’albero di Natale qui non si sfugge,
sia esso fabbricato in Cina o coltivato nelle Montagne Rocciose, perché dopo
aver biasimato l’inutile strage di giovani conifere, esecrato la comodità
plastificata che ormai il 60 per cento delle famiglie preferisce, commentato
severamente la bizzarria di una festa religiosa divenuta strumento di banale
consumismo, una casa senza l’albero è come un’automobile senza ruote. Infatti
100 milioni di famiglie, anche nel senso più esteso che oggi diamo a questa
parola, su 128 milioni censite dal governo, esibisce questo totem. La fortuna
dell’albero di Natale sta proprio nel suo significato ormai non più religioso e
dolcemente generico, buono per le strade del Giappone come per piazza San
Pietro e per la casa di chi resta aggrappato alla tenerezza di ricordi e a
sensazioni rimpicciolite nelle dimensioni, ma non ancora spente. Come scoprì un
boscaiolo dei Monti Catskills, stato di New York, quandonel1851 ebbe l’idea di
trascinare fino a Manhattan un carro carico di piccoli abeti che vendette in
poche ore, riscoprendo e rilasciando una tradizione fino ad allora limitata
alla tradizione tedesca e al protestantesimo luterano. In questo 2017, qualche
brivido era corso all’annuncio che ci sarebbe stata una scarsità di alberini, a
causa della Grande Crisi Economica del 2008, quando dozzine di piantatori di
alberi natalizi erano andati in fallimento. Poiché occorrono dagli otto ai
dieci anni perché la pianticella raggiunga i due metri di statura (la taglia
più ricercata), ecco che questo Natale avrebbe pagato il prezzo del crack di
allora. Naturalmente non è vero. Chi lo ha voluto, ha potuto comprarlo senza
problemi e il mio troneggia, dall’alto delle due spanne, sopra il camino finto
(a gas) con il suo bravo puntalino argenteo in cima. In quell’alberone o alberino
vero, che si accende di illusioni per qualche settimana, c’è la parabola delle
nostre brevi felicità, consumate nell’illusione di quel “sempreverde” che
finirà, nei giorni di gennaio, sul bordo dei marciapiedi, per essere portato
via con il resto della spazzatura. È il risvolto malinconico di tanta
eccitazione legata al tetto delle auto e dei Suv, ma con la certezza che ci
saranno altri alberi e altri Natali.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 16
dicembre 2017 -
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