Soffro da qualche anno di una dipendenza da audiolibri.
Li ascolto in macchina, in bicicletta, cucinando, camminando, mangiando da
sola. Mi affeziono alle storie ma anche alle voci che le raccontano: secondo me,
devono essere espressive ma non istrioniche, calde ma non ammiccanti, credibili
e coinvolte come un lettore appassionato. Non tutti gli attori sanno leggere, e
neppure gli stessi autori del testo. Ma quelli che ci riescono regalano una
dimensione nuova, vitale e ipnotica alla parola scritta, amplificandone magia e
potenza. L’ascolto, coinvolgendo l’udito e non la vista come la lettura
tradizionale, smuove corde differenti, accende lampi inaspettati, risveglia
sensi normalmente sopiti di fronte a un libro. Un brano stampato su una pagina
bianca si può sottolineare, leggere e rileggere fino a impararlo a memoria,
scandagliare, scomporre, capire lentamente, rivoltare come un calzino e poi
raddrizzare per vedere l’effetto che fa. Una frase che viaggia nell’aria,
impalpabile e sfuggente, è come un’ombra evanescente, una brezza tiepida, un
breve sussulto della coscienza. Tra le perle scoperte e riscoperte grazie agli
audiolibri, brilla Natalia Ginzburg: l’ho letta da ragazzina senza apprezzarla
veramente, ascoltarla adesso me ne ha fatto innamorare. L’altro giorno ero in
macchina poco prima delle 5 del mattino, nel buio freddo e disabilitato che
precede l’alba milanese. Andavo a Lavorare, i sensi svegli a metà, il corpo
intirizzito e torpido. Ho premuto play sullo schermo dello smartphone e Nanni
Moretti ha dato voce a Caro Michele,
romanzo epistolare del 1973 in cui Ginzburg, con magistrale sapienza, ironia e
amarezza, raccontava di scelte sbagliate, rapporti complicati, fallimenti
individuali e generazionali, madri, figli, lutti, famiglia e amici, di noi
tutti in una generazione differente ma spesso parimenti inquieta. “Ognuno di
noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto
dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine, e
allora in questa zona può trasferirsi per capirti”. Era la voce di Angelica,
sorella del protagonista, che scriveva a Mara, ragazza madre sprovveduta e alla
deriva, con cui lui aveva avuto una breve relazione. L’audiolibro stava per finire.
Moretti, con il suo tono rassegnato, sarcastico, dolente e beffardo, restituiva
una sublime sintesi delle umane contraddizioni, e io, percorrendo l’ampia curva
del Cimitero Monumentale, ho avuto un sussulto. Perché talvolta l’ascolto, con
una forza d’urto primitiva, rivela epifanie che ci inchiodano alla nostra
ambigua essenza. Quelle parole raggiungevano profondità torbide e inespresse,
rischiaravano luoghi poco battuti, evidentemente bisognosi di cura e
attenzione, calpestavano quella zona sopita e repressa, sbandata e balorda. E
in quel tragitto ordinario e quotidiano, seppur a un’ora infame, ho sentito la
necessità e l’urgenza di traslocare per un po' in quella terra trasgressiva e
sfrenata, altra da noi e parte di noi. Ho avuto voglia di fuggire, di gridare,
di proseguire da sola verso l’autostrada, di distruggere tutto, di dire
parolacce, di accelerare, di estrarre da me tutto quello che abitualmente
reprimo, nascondo, camuffo. E’ durato un attimo, il tempo di una svolta a
sinistra e di un rettilineo. Ma è stato folgorante e liberatorio. È stato
necessario e terrificante. Perché subito dopo ho pensato a mio marito, ai miei
figli, a mia madre, tutti sbandati e balordi in una zona di sé che è una zona
di tutti. Ho premuto il tasto stop e ho spento la macchina. Ero arrivata alla
meta, disciplinata e placida come si conviene, ma soprattutto grata a quella
voce che parlava solo per me, in quell’ora vuota e magica.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 9
dicembre 2017 -
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