Un robot di nome Sophia ha ricevuto di
recente la cittadinanza dell’Arabia Saudita. La maggior parte dei commenti sui
media e tv ha interpretato la notizia come un fatto positivo. Un effetto del
processo di modernizzazione iniziato dall’erede al trono Mohanammed bin Salman.
E se invece fosse vero il contrario? Intanto, perché, come ha scritto Newsweek,
la creatura, che somiglia a Audrey Hepburn – a parte l’inquietante cerniera sul
collo che rompe l’incantesimo – si vede riconoscere molti più diritti di quanti
ne siano stati mai concessi alle suddite di quel reame. Discriminate in materia di libertà, di lavoro, di movimento, di
istruzione. Il fatto che una replicante non musulmana, non velata, non
sottomessa e, per di più, vestita all’occidentale, abbia potuto sostenere un public speech e ricevere un’ovazione da
una platea ipermaschile, non è un segno di progresso. Perché a dispetto della
chiacchiera futuribile che si è scatenata, il riconoscimento dello statuto di
individuo dell’androide uscito dai laboratori
della Hanson Robotic di Hong Kong, rivela un’idea dell’umano decisamente
inquietante. Come dire che il cittadino ideale di domani è un’unità funzionale
e non una persona reale. In grado di processare un oceano di dati ma non di
provare emozioni, passioni, attrazione, repulsione. E nemmeno religione. Una
creatura piena di facoltà ma sprovvista di libertà. Un automa ad altissima
velocità. Forse è questo il vero pericolo. Non la ribellione della macchina che
sottometterà l’uomo di cui vanno cianciando i Nostradamus della tecnologia. Ma
un’idea dell’umano modellato ad immagine e somiglianza della macchina. Un
essere che lavora e produce senza farsi domande e senza porre problemi. Cioè
uno schiavo multitasking.
Marino Niola – Miti D’Oggi – Il Venerdì della Repubblica – 8
dicembre 2017 -
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