Finalmente una buona notizia per
l’università. La nuova laurea in Scienze gastronomiche, appena approvata dai
due rami del parlamento, smette di essere un semplice indirizzo di agraria, o
un’ancella delle tecnologie alimentari. E restituisce alla cultura del cibo
tutta la sua complessità storica e antropologica. È un’altra lodevole
iniziativa verso un adeguamento della formazione dei governi alle nuove domande
della società e dell’economia. E alle potenzialità di un Paese come il nostro,
che ha nell’agroalimentare il suo petrolio verde. Era assurdo e anacronistico che gli studi sull’alimentazione si
riducessero a un calcolo di calorie, carboidrati e grassi. O all’analisi
della composizione dei cibi. O al marketing. Sottostimando i fattori culturali.
Quell’insieme di storie, tradizioni, vocazioni, usi e costumi. Cioè quello
straordinario patrimonio di biodiversità naturali e umane, quell’intreccio tra
capolavori dell’arte e cattedrali del gusto, dove Raffaello fa rima con
culatello. Giotto con lampredotto e Lorenzetti con spaghetti, che ha reso
grande la gastronomia italiana. E che è necessario riconoscere, studiare,
promuovere. E soprattutto imparare a raccontare. Come ha fatto la Francia, che
ha costruito intorno ai suoi vini e formaggi una mitologia, una letteratura,
un’aura di leggenda. Mentre noi, che di eccellenze ne abbiamo da vendere, siamo
solo ai primi balbettii di una storytelling che molti confondono ancora con la
pubblicità. Insomma è difficile valorizzare qualcosa che si considera poco, si
conosce male e si comunica peggio.
Marino Niola – Miti D’Oggi – Il Venerdì di La Repubblica – 1
dicembre 2017 -
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